Il valore del tempo 1
Fuori del Coro | n. 52-1995
Siamo alla fine dell’anno ed è tempo di bilanci. Trascorse le feste natalizie, stiamo già pensando al futuro, ma non possiamo non volgerci indietro per verificare se il 1995 può essere chiuso con un saldo attivo oppure passivo. Inizia il gioco delle profezie di maghi ed astrologi che pretendono di dirci se Di Pietro scenderà in politica, se l’economia migliorerà, se Carlo e Diana divorzieranno, se la fortuna sarà propizia, e un po’ tutti saremo presi dalla smania di indovinare il futuro ricavandolo dai segni del passato. C’è infatti un modo di considerare il tempo come una sequenza di istanti collegati meccanicamente, per cui si pensa di poter sempre “fare i conti” di quello che si è vissuto e di quello che si vivrà, come se la vita fosse interamente programmabile e dunque come se il tempo dell’esistenza fosse totalmente ed esclusivamente a disposizione del nostro calcolo.
Il tempo è invece la misteriosa dimensione con cui percepiamo noi stessi nella condizione di finitezza, che ci obbliga a scegliere una cosa per volta facendoci sperimentare la necessità di preferire qualcosa a qualcosa d’altro, pagando il prezzo del prima e del poi, del già e del non ancora, del passato e del futuro. Ma proprio perché immersi nel tempo, rischiamo o di guardare nostalgicamente al passato, nella difesa strenua di certezze già sperimentate, o di proiettarci verso il futuro privi di radici, alla ricerca di un’incerta novità.
Sfugge quasi sempre il presente come ricorda Pascal in una sua celebre pagina dei Pensieri: “Noi non ci atteniamo mai al presente. Anticipiamo l’avvenire come troppo lento a giungere, quasi per affrettarne il corso; oppure ci ricordiamo il passato, per fermarlo come troppo fugace: così imprudenti che vaghiamo nei tempi che non sono nostri e non pensiamo al solo che realmente ci appartiene; e talmente vani che pensiamo a quelli che non sono e sfuggiamo sconsideratamente il solo che esiste. Il motivo è che il presente normalmente ci ferisce. Lo nascondiamo alla vista perché ci affligge; e se ci diletta ci duole vederlo sfuggire. Tentiamo di sorreggerlo con l’avvenire e pensiamo a predisporre le cose che non sono in nostro potere in vista di un tempo al quale non siamo per nulla certi di arrivare. Ciascuno esamini i suoi pensieri: li troverà sempre occupati del passato e dell’avvenire. Non pensiamo quasi mai al presente; o, se ci pensiamo, è solo per prenderne lume al fine di predisporre l’avvenire. Il presente non è mai il nostro fine; il passato e il presente sono nostri mezzi, poiché solo il futuro è il nostro fine. Così non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e preparandoci sempre ad essere felici, è inevitabile che non lo siamo mai”.
Sfuggire il presente non è mai positivo, poiché l’unica cosa di cui possiamo essere realmente protagonisti e responsabili è l’istante concreto; e questo vale soprattutto nei momenti di particolare intensità come nel passaggio dall’anno vecchio all’anno nuovo, il cui significato non può ridursi alla semplice speranza che cambi qualcosa perché cambia la data del calendario. Il tempo vero non è quello che scorre al di fuori di noi, ma è quello vissuto dall’intensità con cui ogni “io” percepisce il senso della vita e costruisce una storia fatta dagli istanti reali del proprio presente. Per questo ogni attimo può essere quello decisivo per cambiare la propria esistenza, poiché ogni momento contiene un legame all’eterno, ossia ad un presentimento di compiutezza senza limiti che dà senso anche alle cose più piccole: ed è in nome di questa attesa di eterno nel tempo che val la pena di augurare un felice anno nuovo.