Il settimo giorno
Fuori del Coro | n. 06-1996
Nelle grandi aziende si è posto da qualche tempo il problema di razionalizzare il ciclo produttivo con turni di lavoro continuativi, per assicurare un migliore utilizzo degli impianti e per eliminare i costi dei cosiddetti tempi morti. Da qui la proposta di lavorare anche la domenica, in certi casi accolta anche dai sindacati, che introduce di fatto un modo nuovo di concepire il lavoro: la produttività giustificherebbe infatti anche la mutazione di abitudini e di costumi consolidati, purché si assicurino talune condizioni (incentivi economici, turni a rotazione, e speriamo anche un incremento delle assunzioni). In un clima di ricerca di intese sociali, pare dunque secondario chiedere al lavoratore di rinunciare alla consolidata tradizione del riposo domenicale pur di salvaguardare le sue prospettive occupazionali e di consentire una più elevata produttività, e poco sembra importare che questo cambi ritmi familiari (la domenica è l’unico giorno in cui anche i figli sono liberi dalla scuola), impedisca momenti di ricreazione con amici e ponga a qualcuno difficoltà alla partecipazione della messa domenicale: le esigenze produttive devono prevalere su legittimi interessi personali perché i tempi lo richiedono.
In fondo si potrebbe anche dire che si tratta solo di una diversa organizzazione del calendario della vita che si limita a spostare il sacrosanto riposo ad un altro giorno della settimana. Ma in realtà non è la stessa cosa: omologare la domenica a qualunque altro giorno significa dimenticare che nel ritmo dell’esistenza deve esistere il “settimo giorno”, ossia un tempo privilegiato in cui riconoscere che il senso di tutto appartiene ad un’altra dimensione rispetto a quella quotidiana, un “Dies Domini” che ricordi l’appartenenza ad una signoria diversa rispetto a quella del denaro, dell’efficienza, del successo delle proprie azioni. La domenica è infatti nella tradizione cristiana il “giorno del Signore” poiché ricorda simbolicamente che anche Dio si riposò al termine della sua fatica della Creazione, forse per ripensare a quanto aveva fatto. Così è necessario anche all’uomo, chiamato a lavorare con il sudore della sua fronte, avere un tempo per l’otium, per una cura del proprio io libera dal quotidiano affanno ed aperta al silenzio e alla calma come condizioni in cui misurare con gratuità il senso del proprio agire.
Ciò è indispensabile dal punto di vista psicofisico come stacco dallo stress del lavoro, ma è ancora più essenziale come esercizio di libertà nei confronti di tutte le schiavitù che asserviscono a padroni esterni alla coscienza: il giorno del Signore ricorda infatti che la vera signoria su di sé e sulle cose nasce da uno sguardo che affonda nell’origine stessa della creazione, e, per i cristiani, nell’energia della Resurrezione di Cristo che ha vinto la morte ridando bellezza e positività al vivere. Perciò il riposo domenicale non serve solo al recupero delle forze per il lavoro, ma è l’occasione per ritrovare se stessi nel “tempo speciale” della festa, luogo in cui tutti possono innalzare lo sguardo al di sopra delle normali occupazioni.
Per questo la domenica è come una nuova rinascita, e rinunciare al suo significato simbolico spostando il giorno della libertà lavorativa significherebbe appiattire la vita in un sostanziale grigiore che logora e sfinisce, rendendo schiavi di ritmi estranei al desiderio di un’autentica ricreazione della propria persona. Molti lavoratori hanno capito questo e non accettano di essere derubati della festa domenicale, ed hanno ragione: se venisse tolta la gratuità e l’attesa del “settimo giorno”, diventeremmo tutti più poveri.