Il senso della definitività
Fuori del Coro | n. 25-1996
C’è una parola che sta scomparendo dal nostro vocabolario e, ancor più, dalla percezione normale del tempo della vita: la parola definitività. Nessuno sembra più in grado di contrarre un impegno per sempre: i contratti sono tutti a termine e condizionati, le alleanze politiche o militari seguono solo la logica di convenienze momentanee, le amicizie sono per lo più interessate e durano quanto lo scopo che si intende perseguire insieme, le società sono a responsabilità limitata, persino l’amore tra uomo e donna finisce a porre tante e tali condizioni a priori da rendere impossibile il giuramento di eterna fedeltà delle dichiarazioni amorose dell’epoca romantica. Dunque tutto è sottomesso a una durata temporanea e alla limitazione di fattori condizionanti che rendono una scelta possibile solo in determinate circostanze, mancando il senso di una stabilità che assicuri un “per sempre”. Ma perché questo?
Le risposte poterebbero essere molte: la società complessa non consente scelte definitive, perché gli elementi in gioco di una determinata situazione mutano troppo rapidamente, per cui nulla può mai considerarsi univoco e inequivocabile; non esistono valori così assoluti da meritare un’assoluta dedizione e di conseguenza una scelta illimitata nel tempo e nelle determinazioni; ma soprattutto la libertà, nella sua finitezza, sembra strutturalmente incapace di prendere sul serio qualcosa come definitivo, poiché ogni scelta implica una rinuncia e una serie di negazioni, e conseguentemente una coerenza con la decisione iniziale che nessuno sembra poter mantenere, o per debolezza di carattere o per la mutevolezza delle circostanze. Ma alla radice, appare chiaro che non ha senso parlare di definitività in una cultura dell’effimero e del provvisorio, che produce una morale relativistica e minimizza ogni impegno entro le coordinate della coerenza con i principi o con la verifica a posteriori dei risultati.
Senza una concezione adeguata del tempo e dell’esistenza è impossibile concepire una definitività, poiché definitivo è solo quello che si sceglie di fronte all’eternità e dunque per il suo valore assoluto. L’unica percezione di tale assolutezza si dà nell’esperienza dell’innamoramento, ma oggi anche questo è messo in discussione nel momento in cui si è incerti sulla sua indissolubilità: da quando l’amore viene considerato innanzitutto come armonia con il partner o come benessere psicofisico, anch’esso è soggetto al divenire e alle tempeste, tanto che i giovani preferiscono mettere le mani avanti di fronte al possibile fallimento, riconoscendo la loro incapacità di considerare indistruttibile il loro sentimento amoroso. Appare temerario chi pretendesse di amare sempre con la stessa intensità e con la stessa fedeltà, senza tradimenti.
Perciò mi colpisce l’avvenimento dell’ordinazione sacerdotale di un caro amico che domenica scorsa ha celebrato la sua prima Messa in S. Vittore. Si tratta di Don Stefano, un giovane ricco di entusiasmo e di risorse, che sulle orme di Don Bosco ha deciso di dedicare la vita all’educazione dei giovani facendosi prete per testimoniare con la sua scelta l’impegno di una totale dedizione a Dio, per sempre. L’ho seguito negli anni del crescere della sua vocazione e ciò che mi ha colpito è la sua certezza che la definitività della scelta non viene da un suo sforzo personale, fondato sul desiderio di fare qualcosa di positivo, ma dall’abbandono ad una chiamata che viene dall’alto. E qui si chiarisce il senso della questione: la definitività non è il movimento della libertà verso qualcosa da cui si pensa di non staccarsi mai, ma è il riconoscimento che la radice della scelta definitiva è nell’incontro con l’Eterno che rende sicuri i passi dell’uomo.