Figli di Ambrogio
Fuori del Coro | n. 15-1997
Il 4 aprile del 397 moriva il Vescovo di Milano Ambrogio, e dopo 16 secoli la sua Chiesa ne celebra l’anniversario con uno speciale anno santambrosiano. Lo stesso uso dell’aggettivo ambrosiano dimostra che la traccia lasciata dal grande personaggio designa non solo una circoscrizione della geografia ecclesiastica, ma indica più al fondo la fisionomia di un certo tipo di fedele che ancora oggi identifichiamo con i connotati dell’ambrosianità: perché? Certamente grazie all’orma indelebile lasciata da quest’uomo, chiamato all’episcopato nel 374 senza averlo nemmeno voluto (anzi quando fu proclamato vescovo a furor di popolo non era neppure battezzato, ma era solo uno stimato funzionario dell’amministrazione romana), che seppe spendersi per il suo popolo così da poter dire: “Sono vissuto tra voi in modo da non vergognarmi di vivere, e non ho paura di morire perché abbiamo un Signore buono”. Un uomo concreto che ha impostato tutta la sua attività nel nome del realismo, volendo dare il suo contributo alla soluzione dei problemi emergenti in un’epoca di particolare crisi di civiltà.
In un discorso del 1974 il Card. Giovanni Colombo rievocava così l’epoca in cui Ambrogio operò, identificando straordinarie analogie con il presente: “L’Impero, apparentemente ancora forte e splendido, non aveva più anima. Pochi credevano ancora seriamente negli ideali che avevano illuminato e animato l’ascesa di Roma. La vita politica, ridotta ormai a pura lotta, spesso cruenta, per il potere, traeva l’unica motivazione delle sue scelte non dal bene comune, ma dalla brama e dall’ostentazione di sempre maggior dominio. La famiglia era in preda alla disgregazione. La scuola era sconvolta da disordini intollerabili e frequenti. Il mondo dello spettacolo e del divertimento, rifiutando ogni argine e ogni controllo, tendeva a superare continuamente se stesso nella ferocia e nell’immoralità. Ai margini dell’Impero si addensavano popolazioni inquiete e minacciose, che di quando in quando straripavano entro i confini. Era difficile prevederne il destino, ma pareva inevitabile che, presto o tardi, Roma sarebbe stata costretta a confrontarsi con l’irruente vitalità di quei popoli, che dal miraggio del benessere venivano attratti verso province più fertili e progredite. A superare tale confronto si esigevano valori di impegno e coesione, che nella società romana via via erano andati svigorendosi, fin quasi a estinguersi”. Sembra il quadro dei nostri tormentati giorni! E tanto più attuale si staglia la figura di Ambrogio, almeno per due aspetti del suo modo di affrontare tali contraddizioni.
Primo: l’amore alla verità che sa diventare cultura, ossia interpretazione dell’intera realtà alla luce di un principio esplicativo, che a lui viene dall’adesione al Cristianesimo; per Ambrogio la fede non è l’intimistica devozione ad un’idea, ma è la certezza della salvezza operata da Cristo che modifica le condizioni dell’umana esistenza, diventando giudizio sull’intera civiltà pagana, nel recupero del positivo e nella condanna dei fattori di corruzione.
Secondo: l’amore alla libertà, per cui non ha timore di mettersi alla testa del suo popolo nel combattere i soprusi dell’autorità imperiale, nel difendere la giustizia violata, nel contenere la pretesa della politica di debordare dai limiti che le sono propri. In questo seppe diventare vera guida del popolo milanese e padre dei poveri e degli oppressi, dando esempio di come si ricostituisce il tessuto di una società quando si ha a cuore non il potere ma il bene delle persone.
Tutto ciò secondo una concretezza che ci fa ammirare Ambrogio non solo nell’atto di frustare gli eretici o di ridimensionare il potere politico, ma nella dolcezza del vero padre che si prende cura di tutti e di ognuno.