Il re è nudo
Fuori del Coro | n. 27-1998
Abituati a pensare alle sfilate di moda come espressione dell’eleganza femminile o della perfezione statutaria del corpo delle modelle, fa una certa impressione vedere in televisione i corpi quasi nudi di uomini che mettono in mostra mutande e calzini come se fossero il top dell’alta moda maschile. Persino il sindaco di Milano ha sentito l’esigenza di farsi riprendere in mutande accanto ad uno stilista (non si sa se per mostrare il possente fisico o semplicemente per fare pubblicità a se stesso). Comunque sia, l’intimo maschile pare destinato a diventare uno status-simbol, e nella società delle impressioni e dell’immagine anche l’ostensione della nudità, velata da capi intimi firmati, può assumere qualche significato. Ironicamente ci si potrebbe domandare quale rilievo pubblico possa avere un capo intimo di lusso, ma forse siamo alla rivincita del maschio sulla donna nel sottolineare lo stile anche nella scelta delle mutande.
Al di là delle frivolezze, viene però in mente la bella favola dei vestiti dell’imperatore, che racconta di un sovrano che va in giro quasi nudo nella convinzione di avere indosso un vestito magico, e che ad un certo punto viene ridicolizzato dal semplice grido di uno che dalla folla gli dice “il re è nudo!”. L’espressione è stata ripresa per indicare la situazione del potere quando viene messo allo scoperto nel suo tentativo di celare la verità. È il caso del nostro tempo, che sta mostrando l’incapacità del potere di difendere realmente gli interessi della gente, nascondendosi sotto l’abito di giustificazioni che finiscono solo a lasciare il re nudo.
È a nudo il potere del Governo che, dopo aver sbandierato la necessità del vestito europeo, oggi non riesce a trovare coesione sulle questioni che incidono realmente sulla vita della gente (lavoro, scuola, salute, libertà di espressione); è a nudo la giustizia che non accetta di essere giudicata da qualcosa che sia esterno ai suoi organi e ai suoi equilibri interni di potere; è a nudo l’economia che si globalizza ma non risponde all’elementare bisogno di lavoro delle persone; è a nudo lo Stato che non riesce a dismettere il vestito della burocrazia, nonostante i rattoppi che disegnano i buchi di una struttura fatiscente; è a nudo la cultura che, avendo teorizzato il totale relativismo sino al nichilismo, è diventata un vestito retorico per coprire interessi diversi da quelli culturali; è a nudo il tifo dopo la sconfitta dell’Italia ai mondiali di calcio; e si potrebbe continuare all’infinito nella scoperta delle nudità. Ma, in fondo, è l’uomo che è a nudo, perché non sa più come coprire gli aspetti negativi del suo essere, pur volendo mettersi in mostra per potersi affermare; e la moda asseconda questo trend culturale, cercando di creare una nuova identità con la stravaganza di proposte di dubbio gusto, dato che comunque, da Adamo in poi, la nudità imbarazza perché sintomo della perduta innocenza.
Il bisogno di rivestirsi non è però solo necessità di coprire le “magagne”, nel senso che la funzione del vestito non è solo di coprire ciò che non si vuole mostrare. Se è vero che l’abito non fa il monaco, è altrettanto vero che la scelta del vestito esprime quel che siamo veramente, nel senso che disegna uno stile ed un habitus (nel senso di abitudine) destinato ad attagliarsi alla nostra personalità sino a diventarne quasi la pelle. La sobrietà del vestire e lo stile nell’atteggiarsi sono un indice di ciò che si è, e manifestano qualcosa della profondità dell’io, al di là dei formalismi o delle mode. Perciò attenti a non farsi trovare nudi come il re della favola, ossia rivestiti solo di pregiudizi, di false certezze, di abitudini consolidate, ma privi dell’elementare verità di se stessi: sarebbe triste scoprire che sotto il vestito non c’è nulla.