Tempo di attesa
Fuori del Coro | n. 45-1998
Il clima autunnale facilmente evoca il senso dell’inesorabile trascorrere del tempo e di un andare verso qualcosa che sfugge: la poesia delle foglie disperse dal vento ha da sempre simboleggiato la condizione dell’esistenza, permeata dal sentimento della caducità delle cose, rendendo l’uomo più pensoso sul senso della sua stessa vita. Eppure normalmente le giornate scorrono nella fretta, in una strana rincorsa verso qualcosa che nemmeno si sa cosa sia, dimenticando che la natura profonda dell’essere è l’attesa.
Ma attesa di che? Tutti aspettiamo quotidianamente qualcuno o qualcosa in una serie di appuntamenti, di tempi da rispettare, di cose da fare, in una spasmodica tensione ad avere almeno un po’ di tempo per noi stessi; ma neppure il tempo libero sembra più soddisfare, anzi si presenta più come un “tempo vuoto” che come un’occasione di ricreazione dello spirito, un tempo concepito solo come modo per non accorgersi della sollitudine. Non esiste più l’antico otium dei latini, fatto per ricostruire la pace dell’anima, ma al massimo il tempo del divertimento, della distrazione, della noia che si prova quando si percepisce il vuoto e la delusione ben descritte nella leopardiana immagine del Sabato del Villaggio (tanta attesa di chissà che cosa, e poi la ricaduta nella banalità feriale i sempre). Ma perché l’uomo cerca sempre qualcosa? Cosa lo spinge ad aspettare na novità inesauribile? Perché non si può accontentare di quello che ha davanti? Perché non gli bastano le cose di tutti giorni?
C’è nell’io un’inesausta ricerca di infinito che non accetta di ridurre la vita alla soddisfazione dei bisogni immediati, che non tollera di ridurre l’esistenza a semplice gestione amministrativa, che si rifiuta di pensare al tempo come superficiale attesa delle soddisfazioni di un tempo libero che alla fine è solo un miraggio (visto che con la vita si è sempre impegnati). Tutto questo è ciò che la parola attesa sta ad indicare.
Vengono in mente le parole del salmo 8 “che è mai l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?”, che dicono la grandezza della dignità dell’io; una dignità che nulla e nessuno potranno mai rinchiudere in uno schema prefissato, perché proprio il desiderio di un Dio che si ricordi dell’uomo costituisce, in qualunque epoca, l’attesa profonda del cuore umano. Sì, perché per meno dell’infinito non vale la pena di aspettare, pena la caduta in una sorta di disperato ed angosciante “aspettando Godot” che lascia solo nell’assurdo. Non è un caso che ad ogni svolta significativa dell’esistenza, si ricominci ad attendere una novità che rimetta in cammino, aspettando che avvenga ancora qualcosa di bello. Senza attesa, infatti, non è possibile la speranza.
Eppure il potere (soprattutto nella forma della mentalità corrente) cerca costantemente di eliminare la forza di questa attesa, trasformandola in semplice aspettativa di beni parziali e spegnendo nell’individuo ogni domanda che spinga più in là del conformismo del “già visto”.
Gli stessi modelli diffusi di una nuova religiosità tendono a stemperare l’attesa in un vago sentimento di benessere cosmico, in uno spiritualismo che dimentica il desiderio reale di un nuovo avvento. Solo la liturgia cattolica, proprio in questo tempo autunnale che prelude alle grandi feste di fine anno, favorisce uno spazio di riflessione sul senso della storia invitando a vivere l’Avvento, ossia un tempo di attesa aperto all’incontro con la verità di noi stessi: è un tempo di gratuità, di lealtà con l’umano, di silenzio, di contemplazione, di stupore; un tempo per la persona, che libera dalla massificazione e dall’indifferenza; un tempo in cui ogni attesa può compiersi.