Tre cose per il nuovo millennio
Fuori del Coro | n. 50-1999
Ormai siamo agli sgoccioli: solo una manciata di ore ci separano dalla fine del millennio ed è inevitabile fare qualche bilancio. Chiudiamo un secolo difficile ed affascinante, infarcito di guerre e violenze come mai in precedenza, ed insieme ricco di progressi che hanno trasformato in profondità la vita; un secolo che ha avuto un’imprevista accelerazione in questi ultimi anni con la rivoluzione informatica, la globalizzazione e le nuove frontiere della biogenetica, ma che lascia aperte questioni immani come la fame di una gran parte dell’umanità e il disprezzo dei diritti umani in molte aree del pianeta. Un secolo al termine di un millennio in cui il mondo ha ristretto i suoi confini, un secolo che ha visto l’uomo oltrepassare i limiti della conoscenza secondo la bella immagine dell’Ulisse dantesco. Di tutto ciò è impossibile tracciare in poche righe un bilancio: si può solo cercare ciò che è essenziale mettere nella bisaccia del viandante diretto verso il Duemila, perché sia un autentico pellegrino radicato nella memoria viva della sua storia; giacché solo ricordando si può guardare al futuro in modo avveduto, attrezzandosi per le grandi sfide che ci aspettano.
Tre cose metterei certamente nella mia valigia del nuovo millennio: la prima è la ragione, la seconda è la libertà, la terza è la bellezza.
Per prima cosa vorrei avere con me la ragione, questa vecchia e cara facoltà tipica dell’uomo, con cui non soltanto si investiga la realtà per scoprirne e dominarne le leggi, ma che serve per rispondere ai grandi interrogativi dell’esistenza; la ragione intesa come stupita apertura alla realtà, come facoltà capace di esplorare il mistero dell’essere per riconoscerne il significato, come via a quel bene prezioso che si chiama verità. In questi secoli la ragione ha subito troppe riduzioni, soprattutto dall’Illuminismo in qua, per cui nel nuovo millennio vorrei una ragione aperta e libera, capace di dimensioni metafisiche più che di pretese di dominio assoluto sulla realtà, una ragione che sappia mendicare da Dio il significato di tutte le cose.
Il secondo bene che desidero avere con me è la libertà, intesa non come arbitraria possibilità di scegliere secondo un gusto mutevole e capriccioso, ma come esperienza di autentica appartenenza a qualcosa di grande per cui spendere la vita. Una libertà capace di solidarietà verso tutti e di magnanimità nel trattare le cose, che diventi anche libertà culturale e politica per costruire le condizioni in cui ognuno possa essere se stesso.
Da ultimo non vorrei mi mancasse la bellezza nelle sue forme più varie e creative, perché senza l’attrattiva della bellezza neppure l’intelligenza e la libertà riescono a mobilitarsi adeguatamente verso la meta. Senza bellezza, infatti, il mondo si trasforma in una grigia prigione, smarrendo il suo originario significato di dimora in cui l’uomo può ringraziare di esistere.
Ecco dunque il mio bagaglio per il nuovo millennio, che diventa anche la sintesi delle riflessioni “fuori dal coro” con cui ho accompagnato i miei lettori da cinque anni: nel dicembre del 1994 avevo iniziato il mio dialogo ideale cercando di contrastare un certo conformismo ed un’omologazione nel guardare la realtà. L’intenzione era di riscoprire, al di là della scorza dura delle apparenze, un senso più profondo delle cose: insieme abbiamo esplorato fatti di costume o di cronaca, cercando di liberare il pensiero dall’ovvietà, e così ho attraversato con i miei lettori i cinque anni finali di questo secolo cui diciamo addio. Un compito ci sta ora innanzi: cercare di scoprire i primi bagliori di una novità che aspettiamo, i primi bagliori di luce di un nuovo segmento di storia di cui essere protagonisti.
È l’augurio per il nuovo millennio.
Il caso serio del matrimonio
I dati pubblicati sulla diminuzione dei matrimoni religiosi in città rispecchia probabilmente un trend nazionale, e forse si spiega con l’aumento di matrimoni tra stranieri non cattolici o di divorziati che non possono accedere al matrimonio in Chiesa; tuttavia il dato statistico qualche domanda la pone.
Anzitutto c’è da chiedersi se la diminuzione dei matrimoni non sia un dato assoluto, dal momento che il costume corrente sembra non considerare più l’istituto del matrimonio come decisivo per la riuscita del rapporto di coppia: la paura della definitività del patto coniugale, unita alla percezione di non potersi amare in maniera totale ed incondizionata, conduce spesso a forme di convivenza “a termine”, “senza impegno”, cioè non legate ad una fedeltà sancita anche pubblicamente. È evidente, infatti, che il matrimonio impegna non solo le energie affettive dei due partners, ma la loro stessa identità personale chiamata a generare un’identità di coppia stabile, in cui condividere non una parte dell’esistenza ma lo stesso destino della vita. Il “per sempre” sgomenta, perché presuppone che non ci si metta insieme per un interesse parziale, ma per vivere insieme la totalità dell’esperienza, non in una compagnia sentimentale ma in una comunione che abbraccia ogni aspetto, tanto da poter dire che la relazione uomo-donna diventa il “ caso serio” della vita.
Laicamente la possibilità di una passione reciproca fedele e “a cuore indiviso” non è del tutto improbabile, ma è certamente “fuori moda”, così che pare rimasta solo la Chiesa a difendere il matrimonio nella sua serietà di sacramento, cioè nella profondità misteriosa di gesto che chiama in causa non solo la libertà degli sposi ma perfino Dio. Per questo sposarsi in Chiesa è il frutto di una libera scelta e non può essere esito di una tradizione socialmente consolidata: tale dimensione qualitativa può forse spiegare perché statisticamente i matrimoni religiosi siano in calo, in quanto espressione controcorrente di una fede che afferma la certezza del successo della relazione affidandola alla presenza di quel Dio che, sapendo amare come nessun altro, è il vero modello dell’amore umano degli sposi.
Allora non si tratta di sapere se sia più suggestiva la cornice di Palazzo Estense o il sagrato di una chiesa, ma occorre riscoprire perché due amanti desiderino il matrimonio, e perchè lo vogliano consacrare alla presenza del Dio in cui credono. E la questione si sposta sul significato: cosa ci si aspetta dalla vita insieme? cosa si intende per libertà nel rapporto coniugale? sino a che punto si riconosce nell’altro/a la presenza decisiva per il proprio destino? Ha senso sposarsi se si può rispondere a questi interrogativi, ed ha valore il matrimonio in Chiesa perché corrisponde all’autentico desiderio di felicità; altrimenti la sacralità dell’amore si riduce alla banalità di un normale atto amministrativo.