Alle sorgenti della libertà
Fuori del Coro | n. 09-2000
Ancora una volta Giovanni Paolo II ha stupito il mondo per la sua capacità di entrare simbolicamente nel cuore stesso della vicenda umana: sul Sinai, abbandonato dalle folle e tradito da Ebrei e Musulmani che non si sono presentati all’appuntamento ecumenico tanto desiderato, il Papa ha parlato di Dio che si svela a Mosè come l’Essere in sé stesso, l’Altissimo che stabilisce la sua Alleanza con l’intera umanità suggellandola con le tavole della Legge. E da questo monte ha lanciato il suo appello alle grandi religioni monoteistiche, perché riconoscano che la pace e la concordia, il rispetto reciproco e la collaborazione nascono dal riconoscimento dell’unico Dio, Onnipotente e misericordioso, Creatore dell’universo e Signore della Storia.
In questo contesto di incontro mistico, avvenuto nel deserto come luogo fisico e nel deserto di un’umanità distratta da altro, il Papa ha parlato non solo di Dio, ma ha richiamato anche la vera radice dell’essere uomini, che trova nei dieci comandamenti la prima sorgente di libertà. Infatti, ricordando che la prima moralità è già iscritta nel cuore, ha affermato che “osservare i comandamenti significa essere fedeli a Dio, ma significa anche essere fedeli a noi stessi, alla nostra autentica natura e alle nostre più profonde aspirazioni”. Con ciò il Papa ha identificato la libertà non nella possibilità di poter decidere o di perseguire qualsiasi scopo, ma nella corrispondenza alle esigenze della propria natura, che nel Decalogo trova piena formulazione.
I dieci comandamenti non sono l’imposizione di un Dio tirannico, ma sono il cardine della Legge morale universale iscritta, prima che nella pietra, nel cuore dell’uomo di ogni tempo e di ogni cultura: essi sono “le dieci parole che formano l’unica base autentica per la vita degli individui, della società, delle nazioni” ed è per questo che sono “l’unico futuro per la famiglia umana”, in quanto “salvano l’uomo dalla forza distruttiva dell’egoismo, dell’odio e della menzogna”. Con questo richiamo il Papa va al cuore della crisi odierna, radicata nel relativismo etico e nel convenzionalismo giuridico: a fronte dell’impossibilità conclamata di identificare principi morali universali e sicuri da proporre come regola di convivenza tra gli uomini, Giovanni Paolo II non ha paura di ricordare che le dieci parole date a Mosè sono una verità ontologica, che riguarda ogni individuo ed ogni popolo. Non solo il non rubare o il non uccidere (che anche ogni cultura giuridica ha fatto propri), ma ogni altro precetto dei dieci (compreso il non avrai altro Dio al di fuori di me o il ricordati di santificare le feste, che appartengono alla dimensione religiosa dell’esistenza).
Così quanto abbiamo imparato da piccoli come consegna del catechismo assume lo spessore di una verità cosmica: la vera legge della libertà è la libertà di amare e di scegliere il bene nelle diverse circostanze. Ciò si radica nell’esperienza religiosa che, lungi dall’essere elemento di divisione, è il primo fattore di unità tra tradizioni diverse che ricordano all’uomo che non si è fatto da sé, ma dipende dal suo Creatore. Il senso ultimo dell’obbedienza alla Legge è, infatti, l’amorosa adesione alla presenza di Dio nell’esistenza. È quanto ha vissuto Mosè, accogliendo i comandamenti come segno di appartenenza al Mistero e sperimentando che la sorgente del bene non è una prescrizione legalistica, ma la compagnia fedele di Dio che si coinvolge con l’umanità traducendo in parola scritta la Legge presente nell’intimo della coscienza creaturale.
Sapranno gli uomini d’oggi ricordare i comandamenti e metterli in pratica? La sfida è decisiva: la civiltà è nata dal Decalogo accolto nella sua interezza, e non ci sarà libertà senza un serio confronto con le parole del Sinai.