Sulla politica
Fuori del Coro | n. 12-2000
La disaffezione degli Italiani verso la politica è sotto gli occhi di tutti, tanto che persino il Presidente del Consiglio ha dovuto riconoscere che mentre il Paese sta correndo la politica non riesce a stare al passo dell’accelerazione della società. È come se sempre più la politica ufficiale si occupasse solo di se stessa, dei propri intrighi, delle proprie convenienze elettorali, e il Paese reale andasse in tutt’altra direzione, alla ricerca di nuovi equilibri tra il processo di globalizzazione e la progressiva frammentazione, in uno scollamento totale tra stato e società. Priva di un pensiero forte (il “pensiero generale” come lo definisce De Rita), la politica ha oggi un respiro corto, una mancanza di idee, una povertà di prospettive in grado di indirizzare la creatività dei singoli e dei corpi intermedi, un’incapacità di rappresentare quelle tradizionali aggregazioni (associazioni, gruppi, movimenti) che rappresentano l’anima della società.
I sondaggi preannunciano un incremento dell’astensionismo nelle prossime elezioni regionali, ed effettivamente è facile pensare che molti italiani diserteranno le urne o vi arriveranno molto sfiduciati ed incerti. Ma cosa c’è da aspettarsi dalla politica, dalla nobile arte della costruzione della polis, nell’epoca del pragmatismo e del trasformismo più totale? La risposta più adeguata è che alla politica occorre chiedere la difesa della libertà attraverso l’esercizio reale della sussidiarietà, cioè una capacità di aiutare persone e comunità a sviluppare pienamente la loro creatività, evitando la tentazione di occupare spazi propri della società civile. In questo senso, terminata l’illusione delle utopie e delle ideologie totalizzanti (che pretendevano costringere la realtà in improbabili modelli di perfezione), la politica dovrebbe creare condizioni perché la libertà dei soggetti si esprima nell’inventare soluzioni nuove alle questioni che si impongono, trasformando ogni pretesa di egemonia nell’umile coscienza che quella del politico è solo un’opera di mediazione tra interessi diversi. Così la politica dovrebbe assumere il titolo dell’esemplarità di un tentativo, della possibilità di confronto tra esperienze differenti.
Ciò è tanto più rilevante quando è in gioco il governo regionale, che dovrebbe favorire il decentramento: non occorrono grandi proclami di principio, ma flessibilità nell’articolare il pubblico con il privato, per favorire esempi di una socialità più vicina alla gente, come è accaduto in questi anni in Lombardia tramite interventi mirati per la famiglia, la scuola, l’assistenza socio-sanitaria, formulati in chiave di sussidiarietà non statalista. Lo slogan “più società fa bene allo stato” rende l’idea di una politica impegnata non a riprodurre se stessa ma a creare spazi per ognuno, perché sia evitato il rischio di una democrazia anoressica, potenzialmente rappresentativa di tutti, ma sostanzialmente privilegio dei pochi professionisti della politica.
In questa prospettiva è particolarmente interessante il voto dei cattolici: è forse il voto più desiderato da tutti gli schieramenti, perché si qualifica in base a motivazioni e valori morali significativi, ed è oggi in libera uscita tra i due poli. Sarebbe però un guaio considerarlo un voto ideologico! Non esiste, infatti, un modello politico cattolico che distingue i buoni dai cattivi e di cui i partiti laici possano impossessarsi per catturare il consenso della Chiesa. Esiste, invece, la possibilità che la politica valorizzi e sostenga maggiormente la libertà in un esercizio concreto della sussidiarietà, oppure che scelga le forme di un centralismo mortificante. La scelta è storica: ogni personaggio ed ogni schieramento ha dei limiti, ma di ogni tentativo occorre cogliere il valore di esemplarità, perché è dai frutti che si riconosce la buona pianta.