L’ingenua forza della fede
Fuori del Coro | n. 13-2000
Il viaggio del Papa in Terra Santa è stato, a detta di tutti, il più significativo e difficile del pontificato. Voluto strenuamente per ragioni di ordine religioso (mettere i propri passi nelle orme di Gesù nei luoghi che ne testimoniano il carattere di avvenimento storico), era chiaro che avesse anche implicazioni diplomatiche e politiche di straordinario rilievo. La Terra Santa è per definizione il luogo sacro per la coscienza religiosa di Cristiani Ebrei e Musulmani, ma da troppi anni è teatro di contese e dissidi, e proprio questa situazione poteva rendere ogni gesto del Papa ambiguo e persino dannoso al processo di distensione: insomma era impossibile accontentare tutti, ed ogni parola, se non ben calibrata, rischiava di scontentare qualcuno. Ed infatti, qualche ebreo non è stato soddisfatto perché Wojtyla non ha sconfessato Pio XII, qualche musulmano ha mostrato ostilità, e forse anche qualche cristiano ha avuto da ridire su atteggiamenti troppo ecumenici.
Eppure la chiave interpretativa di questo viaggio non sta nella politica, ma nella ingenua fiducia di chi non teme nemmeno il rischio dell’esagerazione. Sì, il Papa sembra aver proprio esagerato: sfondando ogni diplomazia ed ogni prudenza, ha posto al centro dell’attenzione la sua stessa persona, piegata dagli anni ma innalzata dalla certezza della verità, per dimostrare che la fede in Gesù Cristo valorizza ogni frammento di umanità. Il Papa, dopo anni di predicazione nel mondo, ha osato spingersi oltre ogni limite di umana prudenza nel dolersi per il male fatto dai cristiani nel passato, ha sostato nei luoghi santi delle tre religioni con un rispetto pieno di consapevolezza dell’infinito, ma soprattutto non ha avuto paura di riproporre ancora una volta la persona vivente di Gesù. L’ingenua baldanza di chi si fida di Uno più grande lo ha guidato nelle fatiche di spostamenti e di programmi estenuanti, rendendolo capace di valorizzare ogni simbolo ed ogni gesto, dal bacio alla terra che lo accoglieva al silenzio orante dinanzi al Muro del Pianto, nella certezza che il contenuto della fede non è un’idea di Dio o un insieme di riti e di forme religiose, ma l’incontro personale con l’avvenimento del Dio fatto uomo.
Così il Papa ha mostrato che tutto “coopera al Bene per coloro che amano Dio” e che è possibile guardare ogni cosa con attenzione e rispetto perché in ogni brandello di umanità si rispecchia qualcosa del mistero dell’Incarnazione. Oltre ogni prudenza, è apparsa la verità della posizione di questo Papa che non ha paura di annunciare la fonte della salvezza e al tempo stesso di valorizzare ogni fremito religioso presente in ogni cultura. È stato perciò naturale per lui incontrare tutti con libertà, senza preoccuparsi di scontentare qualcuno, fidandosi in una forza che nasce solo dalla fede.
Perciò le immagini più alte di questo pellegrinaggio sono da cercare nel corpo piegato di un vecchio in ginocchio dinanzi a delle pietre: la pietra della casa di Nazareth, della grotta della natività, dell’agonia nell’orto degli ulivi, del Golgota, del primato di Pietro, sino alla pietra della deposizione e del sepolcro che annuncia la novità della Resurrezione; in una fiduciosa certezza che là dove non arriva l’umana capacità di mediare i conflitti e di costruire la pace, lì giunge la “roccia” del Signore che salva. E forse il gesto simbolico più commovente è stato quello di mettere la mano nella fessura del Muro sacro del Tempio, per deporre la sua richiesta di perdono insieme alla preghiera a quel Dio che ha scelto di stringere l’antica alleanza proprio con gli Ebrei. E certamente non si è trattato di un gesto politico per catturare la benevolenza, ma della testimonianza di un uomo che, fidandosi solo dell’Altissimo, sa parlare al cuore di ogni uomo.