Figli del Concilio
Fuori del Coro | n. 38-2002
L’11 ottobre 1962 si apriva solennemente il Concilio Vaticano II, l’evento religioso più importante del XX secolo, a buon titolo significativo non solo per la vita della Chiesa ma per la Storia in quanto tale. Ricordarlo a quarant’anni di distanza non è perciò omaggio clericale, ma consapevolezza che proprio da lì sono scaturite trasformazioni culturali che hanno segnato indelebilmente i decenni successivi. Ricordo con commozione la cerimonia di apertura dinanzi al televisore (la mia mamma mi aveva tenuto a casa da scuola perché potessi vedere le immagini di quest’evento epocale), incuriosito dalla solennità del corteo dei Padri conciliari venuti da ogni parte della terra per iniziare un’avventura di cui nessuno poteva prevedere gli esiti. Dalla disarmante intuizione giovannea della necessità di un “aggiornamento” della Chiesa iniziava una stagione di vitalità del Cristianesimo della quale, che lo vogliamo o no, siamo tutti partecipi.
Senza il Concilio non ci sarebbe Giovanni Paolo II con il suo impeto missionario e la sua capacità di parlare ad ognuno in tutte le situazioni concrete dell’esistenza; senza il Concilio la Chiesa sarebbe rimasta estranea alla maggior parte degli uomini, chiusa in un’aura di sacralità, incomprensibile nei suoi gesti e nelle sue parole (ricordiamo la riforma liturgica con l’introduzione delle lingue nazionali); senza il Concilio non si sarebbe approfondito il giusto concetto di laicità come modalità per condividere da cristiani le dinamiche dell’umanità di tutti.
Lasciando aperto agli storici e ai teologi il campo della valutazione dell’epoca post-conciliare (per molti aspetti ambigua e a volte distante dal vero spirito del Vaticano II), si possono già identificare alcune linee chiave dell’eredità di quanto l’assise ecumenica ci ha lasciato. Anzitutto la riscoperta della Chiesa come popolo (comunione) in missione (rivolta a tutti gli ambienti in cui l’uomo vive, soffre e lavora), per affermare la libertà e difendere i diritti di tutti, secondo la varietà delle singole appartenenze e culture; un’immagine di Chiesa veramente cattolica, universale, storicamente visibile nella materialità di tutti i giorni. Non una Chiesa trionfalistica, ma certamente una Chiesa presente nella carne, e non solo come lievito di spiritualità, capace di “immischiarsi” nella quotidianità con un giudizio chiaro.
In secondo luogo il Concilio lascia un’immagine non clericale della Chiesa: i laici non sono contrapposti al clero o ai religiosi per una diversità di compiti o di ambiti di azione, ma semmai accomunati nell’unica responsabilità di rendere Cristo presente in tutti i luoghi e di aspirare alla santità quotidiana come “misura alta” dell’esistenza (come insegna un santo del calibro di Escrivà de Balaguer). Così il Cristianesimo abbandona l’idea di edificare una cristianità perfetta e la pretesa di un dominio culturale sulla società, per essere segno testimoniale di un’umanità più vera, impegnata con gli interessi normali di tutti alla luce della fede.
In terzo luogo il Concilio lascia l’eredità di una Chiesa in movimento che, distinguendo l’essenziale irrinunciabile dei suoi dogmi, sa essere libera di trovare forme di presenza adeguate alla sensibilità degli uomini d’oggi; una Chiesa che nelle sue varie articolazioni da spazio alla creatività dei nuovi movimenti e delle nuove aggregazioni (soprattutto laicali), in cui è dato sperimentare la forza della fede in maniera più persuasiva. Con ciò anche i non credenti possono incontrare non l’apparato burocratico clericale di un’organizzazione, ma la vita in atto di uomini trasformati dalla compagnia e dalla memoria di Gesù.
Sono questi alcuni tra i segni tangibili di un volto della Chiesa di cui siamo figli ed eredi grazie al Concilio.