Il Papa ad Auschwitz
Fuori del Coro | n. 20-2006
Non poteva che suscitare emozioni forti la visita di Benedetto XVI ad Auschwitz, certamente perché il Papa è un figlio del popolo tedesco, ma soprattutto perché da uomo di fede e fine teologo ha saputo leggere nelle pieghe della Storia un significato che va ben al di là delle pur assodate conoscenze sulla Shoah. Se ci si aspettava un mea culpa o una richiesta di scuse del popolo tedesco, l’aspettativa è stata delusa perché la responsabilità dei crimini non è mai collettiva ma è di persone precise (in questo caso di “un gruppo di criminali” che ha “usato ed abusato” del suo popolo); se si attendeva una condanna di circostanza dei crimini nazisti, c’è da dire che Ratzinger è andato ben oltre andando alle radici quasi metafisiche di tanto male, sino a far risuonare nel silenzio compunto di Auschwitz il grido terribile “ma dov’era Dio mentre sterminavano gli Ebrei?.
Eppure molti non hanno forse capito la profondità del messaggio del Papa e non hanno apprezzato la sobrietà con cui non ha voluto indulgere a condanne scontate, cercando invece la speranza ultima dopo l’Olocausto nella preghiera del salmo “svegliati, o Dio, e non dimenticare la tua creatura”: infatti, la responsabilità del male non può essere attribuita ad un’assenza dell’Onnipotente, ma alla violenza e al cinismo dell’uomo, poiché l’origine del male è nella pretesa dell’io di sostituirsi a Dio affermando il proprio potere che annulla tutto sino a pretendere di decidere chi è degno di stare al mondo e chi ne deve essere espulso.
Da qui l’indicazione di una lettura più profonda delle ragioni per cui il Nazismo ha scelto di voler sterminare gli Ebrei eliminando un intero popolo dalla faccia della terra: “intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell’umanità che restano validi in eterno. Se questo popolo, semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all’uomo e lo prende in carico, allora quel Dio doveva finalmente essere morto e il dominio appartenere soltanto all’uomo”. Qui sta la radice del male assoluto della Shoah: la volontà di estirpare la presenza di Dio dalla storia cancellandone il segno più evidente che è il suo popolo, e con ciò (senza nulla togliere al dramma degli Ebrei) “strappare anche la radice su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell’uomo, del forte”. Il nichilismo è allora all’origine di tanta efferatezza per cui non si tratta tanto di fare a posteriori un generico processo all’Occidente, o di chiedere alla Chiesa di riconoscere una connivenza con l’antisemitismo (in realtà tutta da dimostrare storicamente), ma semmai di prendere coscienza che all’origine dei lager c’è il rifiuto di Dio che non è il principio di una “neutrale matematica dell’universo”, ma è Colui che si prende cura di tutti con un Amore che è fonte di riconciliazione per tutti.
L’uomo non è fatto per misurare sé e gli altri, non è destinato a perseguire solo il proprio utile, non può pretendere di impossessarsi della realtà come se ne fosse il creatore, ma è chiamato a riconoscere la familiarità con tutti i suoi simili, come ha fatto il Papa sostando davanti ad ognuna delle lapidi nelle varie lingue presenti ad Auschwitz, mentre un arcobaleno solcava il cielo plumbeo come simbolo di pacificazione tra Cielo e Terra e risuonava il ricordo delle iniziative educative e di preghiera che stanno sorgendo nei dintorni del campo di concentramento. Ciò a testimonianza che il Male è vinto dalla santità gratuita (come quella di Massimiliano Kolbe ed Edith Stein), che rende credibili le parole di Sofocle pronunciate da Antigone: “sono qui non per odiare insieme, ma per insieme amare”.