L’avventura della scuola
Fuori del Coro | n. 34-2006
Ancora una volta il carrozzone dell’anno scolastico è partito: pur tra le ormai perenni difficoltà la scuola ha riaperto i battenti ed i ragazzi hanno ripreso il loro posto tra i banchi. Forse non sanno che sarà l’ennesimo anno-ponte verso una riforma che la Moratti aveva quasi compiuto e che il nuovo Governo ha azzerato, forse non sono molto interessati al cantiere-scuola di cui sembra che la fine non si veda mai, certo non capiscono perché gli insegnanti cambiano sempre e non assicurano la cosiddetta continuità didattica; ma che importa? La televisione mostra i servizi sul caro-libri, fa vedere immagini di stormi di alunni felici di riprendere le lezioni, intervista qualche attempato insegnante che ricorda i tempi andati quando insegnare era una delle missioni più belle, e “tutto va” o sembra andare finché fra pochissimi giorni la routine avrà già risucchiato il fascino della prima campanella.
Ma nessuno mette più a tema seriamente la mission della scuola, cioè il che cosa serve e a chi, dimenticando che la questione centrale della scuola e della società è la questione educativa. Già, perché senza educazione non c’è scuola, e neppure istruzione, poiché non bastano per essere istruiti le nozioni delle singole materie. Il problema educativo, o come meglio qualcuno l’ha definita l’emergenza educativa, è il vero nodo che realmente interessa gli utenti (famiglie ed alunni) e gli operatori, anche se è di fatto il tema meno frequentato da chi si occupa di politiche scolastiche, di riforme, di contratti per gli insegnanti o di autonomia scolastica.
Educare è, invece, l’atto più nobile che un adulto possa compiere verso un bambino, un ragazzo o un giovane, perché è la trasmissione per osmosi del senso della vita che lui e la sua generazione hanno sperimentato: educare è “introdurre alla realtà totale” accompagnando nella verifica del senso delle cose con l’autorevolezza dell’adulto che ha già visto un’ipotesi positiva per vivere. E un insegnante che cosa può trasmettere se non il gusto con cui ha lui stesso appreso i contenuti di quella parte della realtà che la scuola chiama materie? Perché il problema sta tutto qui: è interessante la scuola per uno studente solo se il suo insegnante gli lascia il “segno” di una passione, di un gusto, di un amore per cui valga la pena di imparare. L’avventura dell’apprendimento non è, infatti, la registrazione di una serie di nozioni su cui costruire delle competenze, ma l’acquisizione di un criterio di giudizio che metta ordine nei frammenti della realtà e permetta di sapersi orientare autonomamente dando significato a tutto. Ma nulla si impara davvero se il conoscere non diventa anche amore all’oggetto da apprendere (cioè da “prendere dentro” il proprio orizzonte affettivo), e se non lo si apprende insieme in un’alleanza tra docente (chi ha qualcosa da comunicare) e discente (chi è disposto ad accogliere). Diceva S. Agostino che “nulla viene conosciuto se non attraverso l’amicizia”, ed aveva ragione: s’impara per sempre solo ciò che cattura certo la curiosità dell’intelletto, ma soprattutto si lega alla passione del cuore in lotta per il significato dell’esistenza. E i famosi collegamenti che i professori invitano sempre a fare altro non sono che il legame dei singoli frammenti delle varie discipline al tutto della Verità cui l’io anela. Perciò la questione della scuola diventa saper ricomporre i termini di un quadro conoscitivo e culturale per orientare gli studenti ad entrare da protagonisti nella vita, crescendo nella consapevolezza del reale.
E questo non si improvvisa con atti amministrativi: ha bisogno della presenza di adulti che sappiano “formare”, cioè dare forma a quel desiderio di Totalità da cui muove l’avventura della vita.