La questione educativa
Fuori del Coro | n. 21-2007
Al termine di un anno scolastico è inevitabile fare un bilancio che vada ben al di là della semplice constatazione di promozione o bocciatura. Che cosa resta di mesi di lezioni, compiti, interrogazioni, fatiche, delusioni? Dal punto di vista dei contenuti tanto o poco, a seconda dell’attenzione, ma dal punto di vista educativo tanto quanto gli scolari hanno ricevuto da educatori che non si siano limitati ad essere solo “funzionari del sapere” o “burocrati della didattica”; già, perché nonostante tanto linguaggio scolastichese fatto di “debiti” o “crediti” formativi, di unità didattiche e di programmazioni curricolari, ciò che resta davvero è il rapporto educativo, cioè il messaggio che l’insegnante riesce a veicolare sul significato complessivo della vita e del lavoro quotidiano svolto a scuola. Cioè, in sostanza, la scuola vale se risponde alla domanda educativa, alla questione del dare un senso alla crescita dei ragazzi e dei giovani, alla possibilità di dare una speranza e la prospettiva di positività a chi si affaccia alla scena del mondo con il desiderio di trovare qualcuno che gli faccia da guida. E l’esperienza insegna che gli studenti sono grati ai loro insegnanti solo se hanno trasmesso un messaggio educativo.
Ma cosa significa educare se non “introdurre nella realtà” accompagnando lo scolaro a scoprirne il valore perché essa diventi l’indicazione del realizzarsi della propria personale vocazione umana? Ma perché ciò avvenga occorre volerlo e favorirlo.
Sul primo versante la scuola ha due nemici: il relativismo culturale, per cui nell’insegnare si pone tutto sullo stesso piano come se non ci fosse qualcosa che vale più del resto e che gerarchizzi i contenuti del sapere, ed accanto a questo l’indifferenza affettiva per cui lo scolaro è visto come un oggetto, un “sacco” da riempire, un essere impersonale che deve essere trattato in maniera standardizzata in nome di una strana giustizia distributiva per la quale si sarebbe tutti uguali e delle esigenze di ogni singolo occorrerebbe tenere il minor conto possibile. Ma è evidente che l’educazione si basa, invece, sul principio di personalizzazione dell’io (il nesso con il maestro è unico ed irripetibile ed è con un volto preciso, prima che verso una classe!) e su una precisa scala di valore che va dalla verità ultima sino alle conoscenze opinabili, o comunque penultime in quanto conseguenti ai principi fondanti. E su questo bisognerebbe che la scuola tornasse ad interrogarsi per non svilire la didattica in un didatticismo falsamente neutrale quanto astratto.
Ma non basta solo una scuola più attenta su questi elementi di metodo: ci vogliono insegnanti che si pongano come autentici educatori e che si rivolgano singolarmente ai loro ragazzi, poiché l’educazione si basa su due fattori imprescindibili: l’autorevolezza dell’adulto nel porre una proposta interpretativa dell’esistenza, e la libertà del discente di lasciarsi coinvolgere in un dialogo sull’ipotesi proposta. L’insegnante non è, infatti, solo il tecnico della sua materia, ma l’uomo che ha fatto della disciplina che insegna il “materiale” per accostare la realtà e comprenderla meglio, almeno sotto un punto di vista particolare. Così come lo studente non è un materiale passivo cui dare forma, ma è una libertà attiva che si pone in ascolto di chi lo prende sul serio.
Perciò il punto centrale della scuola non sono le riforme strutturali o il cambio delle procedure, ma è il vivere l’avventura educativa come ciò che nobilita il tanto tempo e le energie che a scuola ogni giorno si spendono. Per questo, personalmente, ringrazio i ragazzi, con i quali non mi sono mai annoiato di fare scuola poiché con loro è scattata l’esperienza di un rapporto educativo unico ed indimenticabile.