Quale scuola vogliamo?
Fuori del Coro | n. 14-2010
Ricomincia un nuovo anno scolastico, come sempre accompagnato dalla trepidazione degli scolari che iniziano l’avventura di un nuovo anno di impegno, dalle preoccupazioni dei genitori per l’efficienza del servizio scolastico, dai mugugni degli insegnanti sempre un po’ umiliati da uno status sociale non soddisfacente della loro professione e preoccupati per il continuo amplificarsi degli aspetti burocratici della loro funzione. Si rinnova tutto, ma in fondo sembra che nulla cambierà, per cui ultimata la liturgia del primo giorno di scuola, inizierà la routine quotidiana che farà dimenticare il fascino dell’inizio per lasciare spazio alla monotonia ripetitiva del quotidiano lavoro in classe di spiegazioni ed interrogazioni.
Ma la scuola non è un servizio sociale come gli altri, non è un carrozzone impersonale capace di digerire ogni novità (quest’anno inizia l’era della Riforma Gelmini) per potersi poi addormentare nell’abitudine. La scuola è innanzitutto un “luogo” educativo in cui vive una comunità educante, e ciò la rende un corpo vivo e dinamico che continuamente deve porsi l’interrogativo su che cosa vuole essere.
Schematicamente, se ci chiediamo che scuola vogliamo, potremmo indicare due paradigmi educativi: il primo è quello di una scuola preoccupata di “aprire” le menti dei ragazzi, spalancando gli orizzonti della loro curiosità intellettuale ed affettiva, perché sa che la persona è sempre definita da un orizzonte infinito, mentre il secondo è il modello del puro sviluppo di abilità e competenze che cerca di dare il massimo numero di nozioni e di notizie privilegiando la dimensione quantitativa e nozionistica. Intendiamoci, non si vuole negare alla scuola di essere giustamente severa ed esigente nel chiedere di acquisire i dati essenziali ed imprescindibili delle singole discipline (che rappresentano l’introduzione a segmenti significativi di realtà), ma certamente quello che desideriamo è il primo modello.
Cosa chiede, infatti, un ragazzo ai suoi insegnanti? Non solo, ed è il minimo, che siano competenti di ciò che insegnano e che sappiano comunicarlo, ma soprattutto che lascino un segno ed una traccia indelebile del loro modo di affrontare la vita e darle senso in modo adulto. Non dimentichiamo, infatti, che ogni scolaro chiede di essere educato ad un’apertura infinita per scoprire la sua vocazione, non solo in vista di imparare un mestiere ma per imparare ad essere un uomo compiuto che dà dignità alla sua esistenza.
Questo desiderio di “cose grandi” tipico della giovinezza è stato anche evocato recentemente da Benedetto XVI (attraverso il racconto della sua personale esperienza), in un messaggio ai giovani: “la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande. Se penso ai miei anni di allora: semplicemente non volevamo perderci nella normalità della vita borghese. Volevamo ciò che è grande, nuovo. Volevamo trovare la vita stessa nella sua vastità e bellezza. Certamente, ciò dipendeva anche dalla nostra situazione. Durante la dittatura nazionalsocialista e nella guerra noi siamo stati, per così dire, “rinchiusi” dal potere dominante. Quindi, volevamo uscire all’aperto per entrare nell’ampiezza delle possibilità dell’essere uomo. Ma credo che, in un certo senso, questo impulso di andare oltre all’abituale ci sia in ogni generazione. È parte dell’essere giovane desiderare qualcosa di più della quotidianità regolare di un impiego sicuro e sentire l’anelito per ciò che è realmente grande. Si tratta solo di un sogno vuoto che svanisce quando si diventa adulti? No, l’uomo è veramente creato per ciò che è grande, per l’infinito. Qualsiasi altra cosa è insufficiente”.