Basta la salute?
Fuori del Coro | n. 04-2001
Si usa dire che quando c’è la salute c’è tutto, e mai come di questi tempi si sente un gran parlare di salute: dalla questione di mucca pazza che fa temere di contrarre un raro morbo a tutto il lavoro di prevenzione precocissima delle malattie, dalla divulgazione medica che sommerge i media ai consigli degli amici, tutto sembra rivolto a garantire ed ad accrescere il maggiore benessere personale, creando spesso qualche preoccupazione e a volte persino degli allarmismi. La medicina fa progressi da gigante e risolve situazioni un tempo definite disperate, tuttavia non sempre riesce a spiegare cosa significa realmente stare bene e, a volte, crea più ansie che certezze.
Normalmente si identifica la salute con il benessere fisico, con un perfetto (quanto improbabile ed impossibile) equilibrio generale di tutte le funzioni fisiche, accompagnato da uno stare bene con se stessi e con gli altri sotto il profilo psicologico. Le campagne di educazione alla salute per la scuola muovono, ad esempio, dall’idea che la salute sia uno stare bene con se stessi, con gli altri, con l’ambiente in cui si vive, accreditando l’idea che la salute non sia solo questione di non stare male fisicamente, ma riguardi lo stato dell’io in una quiete complessiva, nell’assenza di contraddizioni; in una qualità della vita, insomma, che possa dirsi soddisfacente sotto tutti gli aspetti. Per questo si è disposti a fare sacrifici: dal regime alimentare al controllo dello stress, dalla ginnastica all’assunzione di farmaci, pur di godere il benessere sperato.
Da tale attenzione al proprio corpo nasce una vera e propria cultura salutista che moltiplica le difese preventive e difensive (salvo poi accettare fattori di rischio pesanti come la normalizzazione delle droghe e dell’alcol, la spericolatezza nella guida che provoca un altissimo tasso di mortalità, e tanti altri fattori non confacenti ad una sana qualità della vita), ma che perde poi di vista l’unità profonda della persona, con l’esito che quando comunque la malattia o il disturbo sopraggiungono non si riesce a viverli se non come ineluttabile disgrazia. Capita, infatti, che sia solo il sopravvenire della malattia a far comprendere cosa sia veramente la salute, evidenziando che all’uomo non basta stare bene genericamente: ciò che conta è la salus, nel senso latino del termine, cioè la salvezza dell’intera esperienza umana.
Così si capisce che si può essere in perfetta forma fisica senza essere felici, si può godere di un presunto stato di benessere senza dare un senso alla propria esistenza, si può essere clinicamente sani ma non avere una degna prospettiva per cui spendere la vita. È il morbo del non senso a spegnere la salute (si pensi al dilagare delle depressioni e dei disturbi del carattere), così come è l’incapacità di costruire relazioni primarie a rendere oscura la vita quotidiana. Perciò tutto questo affannarsi salutistico rischia di essere solo un modo per nascondere un male più profondo: l’incapacità di rispondere all’inquietudine che abita nel profondo dell’io.
Prima ancora che a stare bene l’uomo anela, infatti, ad essere felice, ed è in questa prospettiva che riesce a lottare contro la sofferenza quotidiana. Ognuno cerca la salvezza per tutta la sua persona, e il benessere del corpo è solo la cifra di una più profonda tensione al compimento dell’esistenza. Viene in mente a questo punto la saggezza del motto evangelico “a che serve all’uomo salvare il proprio corpo, se poi perde la sua anima?”, che ricorda non un astratto spiritualismo ma il sano realismo di chi sa quanto sia vana la cura del corpo se per il resto la vita rimane abbandonata al non senso. Allora non si dovrebbe dire “quando c’è la salute c’è tutto”, ma “se c’è salvezza, c’è davvero tutto”.