Cinquant’anni dopo
Fuori del Coro | n. 19-1995
Le celebrazioni del cinquantesimo della fine della seconda guerra mondiale, svoltesi in diverse capitali d’Europa, hanno suscitato qualche domanda e qualche inquietudine. Ha fatto impressione la solennità delle manifestazioni londinesi, disertate da un Clinton più preoccupato della sua politica diplomatica verso Mosca che del rapporto privilegiato con gli antichi alleati britannici. Ha suscitato preoccupazione l’ignoranza della storia messa in luce da un sondaggio in Germania, che rivela che il 40% dei Tedeschi non conosce la data della fine del conflitto mondiale e che molti, anche ultrasessantenni, pensano che la guerra sia iniziata per colpa della Polonia; ed ancor più inquietante è la ripresa di tendenze antisemite accompagnata da qualche simpatia di giovani verso forme di neo-nazismo. Non meno imbarazzante è però il ricordo dell’anniversario nella Russia di Eltsin, in guerra con la Cecenia e in rotta di collisione con gli U.S.A. dopo il trattato con l’Iran sul nucleare, che sembra riaprire tensioni e paure da guerra fredda.
Il conflitto balcanico rimane d’altra parte una minaccia tremenda sulla sicurezza europea, e il Papa non si stanca di ripetere che proprio da lì sono iniziate le tragedie del nostro secolo, lanciando nel suo discorso di domenica 7 maggio l’implorazione “Mai più la guerra!”, facendo eco al grido di Paolo VI all’assemblea delle Nazioni Unite nel 1965, e preannunziando una sua lettera agli uomini di buona volontà sulla cultura della pace, aggiungendo che “la terribile pagina storica della seconda guerra mondiale è per tutti un severo monito a rigettare la ‘cultura della guerra’ e a ricercare ogni mezzo legittimo e opportuno per porre fine ai conflitti che ancora insanguinano parecchie regioni del mondo”.
È difficile dunque celebrare degnamente la fine della seconda guerra mondiale, soprattutto se non si è vissuto sulla propria pelle il senso di quell’immane tragedia, eppure oggi occorre riflettere non solo sulle responsabilità storiche dei regimi che ne furono la causa prima, ma anche comprendere le conseguenze del conflitto, che da Yalta alla caduta del muro di Berlino hanno segnato la pace successiva con la logica delle contrapposizioni dei blocchi.
Certamente oggi la grande divisione che attraversa il mondo non è più quella ideologica (pensiamo che persino il leader dell’ex P.C.I. ha dichiarato a Londra di “voler realizzare la rivoluzione liberale di cui l’Italia ha bisogno”!): oggi la spaccatura è tra Nord e Sud, tra paesi occidentalizzati e regimi islamici, tra etnia ed etnia. Per questo risuonano di forte attualità i richiami, fatti recentemente a Varese dal cardinal Tonini, sulla necessità di possedere il senso della “mondialità”, anche se la pace non può essere pensata come facile irenismo, o come compromesso, o come semplice spostamento dei conflitti dal centro alla periferia del mondo sviluppato (come di fatto è avvenuto negli ultimi decenni).
La pace si può costruire solo valorizzando gli elementi positivi presenti nelle diverse culture, facendo leva sul desiderio profondo di felicità e di pienezza che anima ogni uomo e che ogni cultura esprime in modi diversi. Avviandoci verso il Terzo Millennio, si tratta di riscoprire la natura di quel senso religioso che conduce i popoli ad elaborare, attraverso la cultura, dei significati su cui fondare un equilibrio più vero di quello semplicemente economico-politico. In questa prospettiva è possibile superare la logica della contrapposizione bipolare e restituire al mondo la sua dimensione policentrica, avviando la diplomazia a cercare nuovi equilibri dentro una corretta visione ecumenica, che riconosca l’esistenza di una radice comune dell’umano e sappia costruire una casa per tutti nel riconoscimento del valore delle differenti culture.