Dopo Auschwitz
Fuori del Coro | n. 05-1995
Sono passati cinquant’anni dal 27 gennaio del 1945, quando le truppe russe entrarono ad Auschwitz e videro lo scempio compiuto dai Nazisti, ed ancora la memoria della tragedia divide ed apre polemiche. Tutti concordano sul giudizio che è stata la barbarie di un’umanità impazzita a generare i mostri dei campi di concentramento, ma qualcuno cerca interpretazioni revisionistiche, altri vorrebbero meglio riconosciuto il tributo pagato dagli Ebrei all’olocausto, qualcuno accusa la Chiesa di volersi appropriare di quel luogo avendo costruito lì un monastero di clausura, altri inorridiscono al pensiero che l’Europa cristiana di quegli anni non abbia saputo fermare il “più grande crimine della storia” e non accettano il confronto di Auschwitz con gli altri tremendi genocidi del nostro secolo, tanto meno con quelli degli anni più recenti. Le interpretazioni giornalistiche e i commenti sono stati diversi, ma non possiamo trascurare il monito del premio Nobel ebreo Elie Wiesel che, invitando a non dimenticare gli orrori del nazismo, afferma che “tutto il mondo è afflitto da una malattia che è la mancanza di visione storica”, con la conseguenza della perdita della memoria di sé. Tuttavia, se cerchiamo in profondità la radice delle stragi del XX secolo, il giudizio più acuto mi pare quello espresso dall’Osservatore Romano: “Auschwitz non è soltanto un luogo geografico e un tragico ricordo della storia, è un simbolo, una categoria di pensiero e di azione che si annida nei recessi più tenebrosi dell’animo umano”.
Su questa via, senza sminuire la tremenda gravità dell’evento storico specifico, è possibile cercare la causa degli stermini del nostro secolo in una forma di “oscuramento della ragione, della coscienza e del cuore” (come ha detto domenica il Papa), che ha cercato di legittimarsi attraverso l’ideologia. L’ideologia nasce fondamentalmente dalla paura del “diverso”, dal “fastidio della differenza”, dall’incapacità di vivere la propria peculiare identità senza eliminare l’altro. Nella storia essa cerca di giustificare degli interessi estremamente particolari alla luce di dottrine o sistemi (non c’è differenza sotto questo profilo tra nazismo, stalinismo o fascismo) che pretendono di assumere una compiuta universalità; così si spaccia il particolare per universale con la conseguenza che il potere diventa necessariamente arrogante e totalizzante, e come conseguenza radicalmente violento. È tipico il caso dell’antisemitismo, creato come mito della difesa della purezza della razza per ottenere in realtà scopi ben diversi. L’ideologia non sa accettare l’altro, colui che reca nella storia una precisa identità culturale o religiosa: per questo deve eliminare l’Ebreo in quanto portatore di una appartenenza precisa, ma si rivolge ad ogni membro di qualunque altra parte politica, sociale, culturale come se fosse un potenziale nemico da annientare.
Oggi le ideologie sembrano definitivamente morte, ma è rimasta la violenza nella sua assurda logica (pensate che si può morire fuori da uno stadio senza alcuna ragione per l’esplodere di una reattività incontrollata!). E le sue manifestazioni possono essere anche molto subdole: mi colpisce ad esempio che il Papa, nella lettera per la Quaresima 1995, parli della piaga dell’analfabetismo, che priva quasi un miliardo di uomini della possibilità di accedere alle chiavi decisionali del proprio destino storico, definendola violenza sull’uomo. L’analfabetismo produce infatti la marginalizzazione dei poveri in una condizione di subalternità, poiché chi non sa leggere né scrivere è condannato all’ignoranza dei suoi diritti e doveri, non riuscendo a percepire pienamente le proprie responsabilità sul piano morale e spirituale.
Oggi non è più tempo di lager, ma ciò non coincide con una più chiara e forte coscienza dell’umano: anzi è sin troppo facile diventare protagonisti di “nuove Auschwitz”. Dobbiamo infatti ricordare che Auschwitz non fu solo un delitto contro l’umanità, ma è “un delitto dell’umanità”, che può ripetersi in nuove forme, come ammonisce una vecchia canzone di Claudio Chieffo: “Ora siamo tornati ad Auschwitz/ dove ci è stato fatto tanto male/ ma non è morto il male del mondo/ e noi tutti lo possiamo fare“.