Dopo Freud
Fuori del Coro | n. 33-1995
Estate tempo di sogni. Sulle spiagge o in cima ai monti è più facile sognare; si ha più tempo per fantasticare e per immaginare il mondo che vorremmo. Il sogno è infatti una delle possibilità per costruire una realtà diversa da quella vera, in una trasposizione simbolica che contempla elementi altrimenti esclusi dall’orizzonte del pensiero.
L’interpretazione dei sogni è affascinante: mentre gli antichi vedevano nell’orizzonte onirico la profezia del futuro, il presagio di quanto avrebbe dovuto accadere, con l’avvento della psicanalisi il sogno ha assunto il significato di sintomo rivelatore di sentimenti e pulsioni che si agitano nell’inconscio. Cent’anni fa il Dottor Freud interpretava per primo un suo sogno in chiave clinica, dando inizio ad una nuova forma di conoscenza significativa sia come strumento terapeutico sia come chiave di lettura della realtà-uomo. Senza entrare nel dibattito sulla scientificità di tale pratica terapeutica, e senza esprimere giudizi sul peso culturale della psicanalisi (che oggi sembra essere molto ridimensionato), vale la pena di cogliere qualche merito e qualche limite del pensiero di Freud.
Un merito fondamentale è stato di aver permesso la scoperta della dimensione dell’inconscio, dominata dalla legge della soddisfazione: l’uomo è originariamente chiamato a rispondere all’irrinunciabile esigenza del piacere, cioè all’urgenza della propria felicità, perché nel momento in cui riceve il beneficio di una relazione affettiva si sente chiamato a corrispondervi. La ricerca del piacere, lungi dall’essere banalizzata come semplice soddisfazione di pulsioni sessuali, è la dinamica più profonda attraverso cui il soggetto si rapporta con se stesso e con la realtà: ciascuno infatti esercita una personale competenza relazionale che conduce alla ricerca dell’altro in quanto fonte di soddisfazione e soggetto cui ricambiare la propria capacità affettiva.
Ciò si manifesta nella relazione con le figure parentali, soprattutto con quella del padre, di cui Freud ha mostrato l’importanza ai fini di un corretto sviluppo della personalità: una relazione con la figura paterna distorta o malvissuta è all’origine di tanti disturbi psichici ed impedisce un’armonica percezione dell’io. La celebre teoria del complesso edipico tenta di spiegare, alla luce del noto mito tratto dalla tragedia di Sofocle, l’urgenza di un distacco dalla identificazione con il padre per poter affermare se stessi. Ma emerge qui il limite di un’interpretazione restrittiva di Freud che identificherebbe nel parricidio il vertice dell’emancipazione e la punta di diamante del cosiddetto senso critico: bisogna uccidere la dipendenza da ogni padre per poter essere realmente se stessi, dimenticando l’originaria evidenza che ognuno è figlio, non solo sul piano biologico, ma anche sul piano spirituale e psicologico. Ma non si può mai uccidere il padre senza rinunciare ad essere figli, senza quindi rifiutare la strutturale dipendenza che ci porta a desiderare qualcosa di altro da noi. Se desideriamo è perché qualcosa ci manca, e quel che manca è proprio un padre con cui vivere una relazione autentica.
Perciò la via dell’interpretazione psicanalitica dei sogni non si riduce a semplice tecnica per decodificare le fantasie oniriche, ma può diventare un accesso a quella realtà che gli antichi chiamavano anima, facendo riscoprire l’originaria evidenza di una paternità che ci costituisce nel profondo. Perciò siamo grati al Dottor Freud di aver preso sul serio le sue turbe infantili e i suoi sogni, perché, al di là dei discorsi un po’ fumosi di certi psicanalisti, ci può aiutare a vedere meglio dentro noi stessi illuminando quella straordinaria verità dell’essere figli.