Esami di maturità
Fuori del Coro | n. 25-1995
Sono iniziati gli esami di maturità. Puntualmente ogni anno si presenta sempre più stanca e forse inutile la liturgia degli esami: gli studenti vivono l’emozione, piena di disillusione, della prova conclusiva del loro ciclo di studi superiori, sapendo che questa strana formula (da 26 anni in via sperimentale!) premia le furbizie e non è sempre generosa con chi realmente si è maggiormente impegnato nell’approfondire il suo studio. Eppure, nonostante ciò, le famiglie e gli studenti vivono questo momento magico come se fosse decisivo per la maturazione personale della vita, invitati a questo anche dal clima di ansia evocato dagli immancabili servizi giornalistici.
Sembra quasi che la scuola voglia trovare nella Maturità il suo sussulto di serietà e di severità, messo in discussione dall’abolizione degli esami di riparazione. Ma è proprio vero? Francamente non credo. Eppure qualche riflessione vale la pena di farla lo stesso, interrogandoci sul significato degli esami in rapporto al conseguimento di una maturità umana.
Innanzitutto, bisogna riconoscere che un certo costume, fondato sulla ricerca del massimo risultato con il minor sforzo, ha fatto dimenticare il valore dell’essere esaminati. Oggi siamo un po’ tutti convinti che nessuno abbia realmente il diritto di giudicare il nostro livello di impegno e di preparazione; per cui vorremmo togliere ogni forma di messa alla prova. Eppure la vita è tutta un esame; è una continua verifica cui nessuno può sfuggire. È la legge dell’esistenza ad imporre la prova come passaggio per crescere, e non è positivo che la scuola cerchi di togliere questi momenti di giudizio in nome di concezioni educative che eliminano la durezza degli ostacoli spegnendo l’energia necessaria a superarli! Senza fatica nessun risultato può essere conseguito, e senza il confronto con l’oggettività di qualcosa di imprevedibile nessuno diventa realmente adulto. Gli esami si possono dilazionare, ma non eliminare.
Gli esami “di maturità” hanno nell’immaginario collettivo quasi la funzione di rito iniziatico di ingresso nella vita adulta, come se conferissero la patente di inizio del definitivo possesso della personale padronanza di sé, in un’ideale uscita dall’adolescenza verso il mondo degli adulti. Il mito dell’incubo, che per anni accompagna i grandi nel ricordo dei loro esami, è riproposto ai giovani come un sentimento necessario alla loro crescita: che si ricordino di quella grande ansia attraverso cui sono passati davanti alle loro commissioni, perché questo è l’inizio della partecipazione alla condizione adulta, in cui non esistono protezioni e difese al di fuori delle proprie capacità! Ma è proprio l’esame di licenza a far scattare questa maturità?
La maturità è cosa troppo seria per essere ridotta a due prove scritte e ad un colloquio pilotato su due materie scolastiche: essa è la vera consapevolezza del significato della vita in rapporto al progetto della personale autorealizzazione, ed implica un uso compiuto della ragione e la conseguente libertà di seguire quanto l’intelligenza scopre come verità dell’esistenza. La maturità coincide con la sapienza di chi scopre la radice vera del gusto del vivere e diventa padrone di sé nella compostezza di tutti i fattori del suo essere uomo. La maturità cresce nell’esperienza e nel confronto con la realtà ed implica la capacità di appropriarsi di ogni positività incontrata, per cui coincide con il motto “vagliare tutto per trattenere ciò che è buono”.
È per questo che anche lo “studio matto e disperatissimo” dei nostri cari maturandi costituisce un percorso di crescita, a patto di non dimenticare quanto diceva Einstein: “l‘ansia di conoscere il vero è la sola cosa che possa indurci ad attribuire importanza a ciò che studiamo“.