Etica della gratuità
Fuori del Coro | n. 26-1998
Un vecchio adagio popolare dice che nemmeno il cane muove la coda per niente, come a dire che la gratuità non esiste su questa terra; ciò è confermato dalla proposta, avanzata da una prestigiosa rivista scientifica inglese, di permettere la libera vendita dei reni così da facilitare la pratica dei trapianti. La giustificazione è che ciò favorirebbe chi può comprarsi un rene aiutando anche chi versa in condizioni di indigenza, regolamentando il traffico clandestino degli organi. Ovviamente le reazioni della comunità scientifica e degli studiosi di etica sono state di profondo sdegno, ma ciò non rassicura circa futuri scenari, poiché la stessa proposta nasconde quella mentalità sempre più diffusa che risponde all’ethos dello scambio mercantile, regolato dalla legge della domanda e dell’offerta.
Nello specifico preoccupa il fatto che il commercio di organi presupponga anzitutto che il corpo sia considerato solamente come un insieme di “pezzi” facilmente intercambiabili per recuperare la salute; e che, in secondo luogo, questi pezzi siano considerati disponibili per lo scambio come proprietà esclusiva di chi ne è il titolare. Se a ciò si aggiunge il senso di onnipotenza con cui la tecnica ritiene di avere potere su tutto ciò di cui è capace, il gioco è fatto: tutto diventa lecito in quanto funzionale al risultato, indipendentemente da ogni altra valutazione morale, e se esistono molti potenziali donatori d’organo disposti a vendere una parte di sé, sarebbe uno spreco non creare un libero mercato almeno di quegli organi che possono essere trasferiti da due viventi, nell’ottica del miglior rene al miglior offerente. È evidente che siamo di fronte ad una guerra tra poveri: il malato che, pur di guarire, accetta di comprare qualcosa che fa parte integrante della persona di un altro, e il poveraccio che, per supplire alla propria indigenza, accetta di vendere letteralmente se stesso come ultima cosa di cui ha proprietà.
Ciò che viene totalmente eliminato in questa prospettiva è il senso profondo dell’atto stesso del trapianto, che si può collocare solo nella logica del dono; la logica di chi, in nome del bene dell’altro, è disposto a rinunciare a qualcosa di sé, offrendo ad un suo prossimo la possibilità di vivere. Chi ha fatto esperienza di trapianto conosce bene il sentimento di gratitudine e di riconoscenza verso chi (normalmente un defunto) gli ha ridato speranza di vita: l’avvenimento del trapianto accade, infatti, nella totale gratuità dell’imprevedibile circostanza che ha fatto incontrare la disponibilità di un organo da espiantare con la corrispondente compatibilità all’impianto nel corpo del malato. È un’esperienza che ha quasi il sapore del miracolo per il trapiantato, che si sente come avvolto da una salvezza (questo è il vero significato della parola salute!) che gli proviene da un orizzonte di tale gratuità, da non poter nemmeno conoscere il nome o l’identità del donatore.
Guai allora a considerare il trapianto solo come questione tecnica sottoposta alle regole del puro scambio: il malato sarebbe espropriato di qualcosa di sé, al punto che l’organo impiantato gli diventerebbe oggetto intrusivo. Solo la gratuità del dono permette di accettare il trapianto, perché fa capire che ognuno può ricevere o donare qualcosa solo se riconosce che la vita gli è data gratuitamente dal Mistero dell’essere. Solo così la vita riesce a manifestare la sua profondità, ben oltre le evidenti strutture fisiche e biologiche, facendo scoprire una dignità più alta che non dipende certo dall’efficienza delle varie parti del corpo. Ed è solo in questa logica che si può concepire sia la possibilità di donare qualcosa di sé che la gratitudine di ricevere la possibilità di guarigione.