Giovinezza tradita
Fuori del Coro | n. 35-2000
Gli sconvolgenti episodi di violenza, di abuso, di omicidi, di sevizie, ad opera di giovani (e persino di minorenni), di cui le cronache ci parlano in questi giorni sembrano smentire le speranze suscitate dalla Giornata della Gioventù, evidenziando i tratti di una giovinezza sbandata e senza guida. È vero i due milioni di Papa-boys sono l’inizio di un mondo nuovo, e le decine di migliaia di giovani del Meeting di Rimini sono lo specchio di un ideale in grado di costruire una società migliore; ma questo non ci autorizza a dimenticare la solitudine e la disperazione dei ragazzi del branco che, in nome di un’insulsa spavalderia, diventano capaci di uccidere una prostituta o di violentare una ragazzina straziandone il corpo senza ragione, diventando gli assassini reali di un’avventura tragica. Come spiegare l’esistenza degli estremi di una giovinezza nobile e ricca di ideali da un lato, che può trasformarsi nella più atroce fonte di perversione dall’altro? Senza voler generalizzare, vale la pena di fare qualche riflessione.
Anzitutto non esiste il giovane come categoria sociologica; esiste l’uomo, nel cui cuore si agitano sia il desiderio del bene e della felicità sia l’oscura capacità di violenza e di male, che stravolge l’originario impulso di auto-affermazione. È un mistero inestricabile l’insieme di pulsioni che portano un ragazzo a fare il male sino ad uccidere: si può essere figli di ottima famiglia e cadere preda di irrefrenabili istinti animaleschi. Una cosa però è certa: nessuno può crescere senza educatori che si occupino di lui e che gli propongano un ideale grande per cui valga la pena di spendere l’esistenza. Perciò la differenza è fatta dall’educazione che un giovane riceve, dagli incontri che fa con uomini veri, dalla proposta che lo affeziona al valore piuttosto che alla violenza.
Oggi un giovane si trova esposto o all’indifferenza totale degli adulti (spesso incapaci di offrire modelli credibili ed alti), che lo spinge ad un sostanziale scetticismo cinico; oppure si trova soverchiato da regole e convenzioni che non rispondono alla sua esigenza di libertà, e che gli impediscono di verificare cosa sia bene per lui. In risposta a questo tradimento dell’esigenza di un significato, scatta la logica del gruppo e della sequela di qualunque leadership che prometta emozioni forti, con l’unico risultato di aumentare la solitudine e lo smarrimento dell’io. Ma privo di un criterio autorevole con cui affrontare la realtà, un giovane si trova abbandonato ai suoi sogni e alle sue illusioni, prigioniero dell’irreale, smarrito sulla strada da percorrere, e perciò più esposto alla possibilità della violenza. Allora persino uccidere può diventare normale per uscire dalla noia, e la banalità del male (come la chiamava Hanna Arendt) prende il sopravvento sulla naturale tensione al Bene. In assenza di ragioni grandi per vivere, è persa così anche ogni percezione del male.
Tutto ciò non può non interrogare gli adulti: quale orizzonte la società dei grandi offre oggi a chi si affaccia alla vita, quale ragione di impegno e quale criterio di valore vengono indicati ai giovani di oggi? Quale patrimonio è in grado di trasmettere la generazione degli adulti?
La cultura nichilista non può rispondere, ma i ciellini di Don Giussani e i ragazzi del Papa qualcosa hanno trovato, altrimenti non potrebbero affrontare la vita con la costruttiva positività che hanno mostrato in queste settimane. Per loro l’educazione è stato l’avvenimento di un incontro con uomini che vivono nella certezza che la verità esiste e che il senso delle cose orienta la vita. E con ciò mostrano che non occorrono poliziotti nelle scuole o psicologi per i genitori: il futuro buono si costruisce partecipando ad un popolo che si stringe attorno ai suoi maestri.