I linguaggi della politica
Fuori del Coro | n. 12-2010
La politica non è solo una pratica volta a realizzare obiettivi o a conseguire risultati: è prima di tutto un linguaggio, cioè la traduzione in programmi e decisioni operative di una visione dell’uomo e della convivenza sociale coerente con una visione antropologica. Per questo il linguaggio della politica non può essere il tributo che la classe dirigente di un Paese paga alla civiltà della comunicazione mass-mediatica, ma esprime di fatto il significato che si vuole dare al proprio agire politico. Per questa ragione non può non preoccupare il modo di parlare dei politici, che diventa segnale di imbarbarimento della vita sociale quando assume toni che, per screditare l’avversario, scivolano in eccessi che vanno dalla volgarità alla violenza.
Un tempo si usava l’espressione “politically correct” per indicare quella forma di correttezza anche formale cui non si dovrebbe mai rinunciare, in linea con una sorta di istituzionale “galateo” non scritto che si rifaceva ad una modalità non scomposta di argomentare e criticare l’altro: si intendeva con questo uno “stile” in cui, anche quando si dovevano sferrare i più distruttivi e profondi fendenti all’avversario, non ci si dimenticava (almeno nella forma) di avere di fronte una persona da rispettare nella sua inviolabile dignità. E proprio questo “stile” distingueva il politico raffinato ed affidabile (capace di mediazioni e di costruzione del bene comune) dall’uomo rozzo e sanguigno portatore solo di interessi egoistici o di astiose rivendicazioni. Il politico era riconoscibile perciò per la nobiltà con cui interagiva con l’avversario, sino ad attaccarlo senza però demonizzarlo, concedendogli nel caso anche “l’onore delle armi” al termine di una contesa.
Oggi assistiamo invece ad attacchi verbali pericolosissimi che veicolano, come ha ricordato il Ministro della Giustizia a proposito di un infelice espressione del capo dell’opposizione, l’idea che anche un premier democraticamente eletto dal popolo debba essere trattato come un dittatore da eliminare o un arnese qualunque da buttare, indipendentemente dal suo ruolo istituzionale. Ora, se è comprensibile che l’opposizione faccia sfoggio di frasi ad effetto per combattere la maggioranza, è molto pericoloso che si usi l’arma della retorica solo demolitrice, perché alla fine il messaggio che passa è solo quello dello scontro personale e non il confronto tra ragioni politiche o culturali. Altrettanto l’uso eccessivo di frasi del linguaggio corrivo (sino all’abuso di quelle che un tempo erano definite “parolacce”) non solo non nobilita la politica, ma la riduce ad attività volta solo ad insultare chi sta sul fronte opposto (e come si sa l’insulto è a senso unico perché ad esso si può rispondere normalmente solo rincarando la dose con un insulto astiosamente più pesante).
Qualcuno potrebbe obiettare che nella civiltà della comunicazione l’unica cosa che vale è l’effetto che questa retorica neo-sofistica vuole ottenere per creare immagini forti e sensazioni incisive; ma la cosa grave è non avere alcuna considerazione della sacralità della parola, che viene ridotta ad una specie di “trapano” perforatore della realtà invece che assumere la sua funzione di conoscenza e di possesso delle cose e delle situazioni. Ciò di cui c’è bisogno non è allora solo di “abbassare i toni”, ma piuttosto di ridare “qualità” al linguaggio della politica, ritrovandone la giusta “misura” di ricerca del bene comune che passa anche attraverso un parlare che – per dirla con una bella frase del Manzoni – si impegni a “non proferir mai verbo che plauda al vizio e la virtù derida”. Un bel linguaggio, tra l’altro, aiuta anche ad essere chiari nelle proprie scelte, a farsi capire da tutti senza tradire i propri elettori.