Il coraggio di esistere
Fuori del Coro | n. 16-1997
La scorsa settimana abbiamo assistito ad alcuni avvenimenti che ci hanno ricordato la grande virtù, forse oggi un po’ dimenticata, del coraggio. Il coraggio del vigile del fuoco di Torino che si scaglia contro la teca di cristallo antiproiettile della Sindone, mentre la cupola del Guarini gli stava crollando addosso, pur di salvare quel simbolo che per un miliardo di fedeli ha un’importanza così grande da giustificare il rischio stesso della vita. Il coraggio del giovane Giovanni Agnelli junior che sfida la malattia ingaggiando una battaglia a viso aperto con il tumore che gli è stato diagnosticato, con la determinazione di chi vuole far prevalere le ragioni della vita nella speranza di gustare la sua prossima paternità. E, non certo da ultimo, il coraggio indomito del vecchio Papa che si reca a Sarajevo, sfidando ogni umana prudenza in nome dell’ideale della pace e della riconciliazione, senza temere i rischi di attentati e sopportando con vigore le intemperie atmosferiche.
Tre episodi che hanno il sapore dell’eroismo, e che ricordano la capacità dell’uomo di tirar fuori il meglio di sé proprio nelle situazioni limite, quando il coraggio rimane l’ultima risorsa. Ma da dove può venire questo coraggio? Il Manzoni faceva dire a Don Abbondio, con ironico realismo, che “il coraggio uno non se lo può dare da sé”, e la saggezza antica lo identifica non già con l’incosciente sprezzo del pericolo, ma se mai con l’adeguata valutazione delle proprie forze di fronte alla realtà, in vista della realizzazione del fine umano, collegandolo in modo indissolubile con la saggezza e la prudenza. Inteso come virtù mediana tra la temerarietà incosciente e la pavidità gretta della paura, il coraggio definisce l’atteggiamento di un uomo capace anche di rischiare la propria vita “per amore di ciò che è nobile”, come dice Aristotele, e si configura come “fortezza” (la classica virtù che spinge a superare l’immediatezza della soluzione più a buon mercato in nome di una grandezza più alta da conseguire). Perciò il coraggio, se è ragionevolmente orientato dalla giusta valutazione dei rischi e dei pericoli, non nasce dal calcolo o dalla presunzione di poter dominare tutti fattori della realtà in gioco, ma trae origine dall’apertura a qualcosa di più grande dell’interesse immediato: solo una causa alta e nobile giustifica il coraggio di rischiare tutto sé stessi. Il coraggio è legato alla “magnanimità”, ossia alla grandezza d’animo, e si contrappone alla misura mercificante dell’equivalenza tra lo sforzo e il risultato, della matematica corrispondenza tra dare e ricevere.
A volte, si dice, occorre un bel coraggio per affrontare certe situazioni; e più alla radice, ogni giorno siamo chiamati a rinnovare il coraggio di esistere, che il filosofo Paul Tillich definiva come “l’atto etico in cui l’uomo afferma il proprio essere, nonostante quegli elementi della sua esistenza che sono in conflitto con la sua essenziale autoaffermazione”; infatti tutta la vita è l’atto di coraggio che spinge ciascuno di noi a “guardare oltre”, a non accontentarsi della banalità delle misure strette e già garantite. Il coraggio ha perciò a che fare con la questione della verità e del significato della vita, e richiede delle ragioni certe che diano la forza di sfidare l’ignoto, a prescindere dalla sicurezza dell’esito. Si può essere realmente coraggiosi, anche senza diventare degli eroi, solo quando c’è un motivo grande per avventurarsi nella terra del rischio; come per quel pompiere di Torino, che dice di aver trovato la forza di un gigante nella consapevolezza di lottare non per un suo piccolo interesse personale, ma per qualcosa che simbolicamente appartiene a tutta all’umanità. È questo il coraggio semplice e forte che affascina!