Il fascino della domenica
Fuori del Coro | n. 15-2005
“Senza la domenica noi non possiamo vivere”: in questo slogan, tratto dalla tradizione del Cristianesimo dei primi secoli, c’è tutto il senso del Congresso Eucaristico aperto a Bari in questi giorni. La frase non deve però far pensare solo al desiderio di difendere la domenica come giorno della Messa festiva, ma contiene un’indicazione di civiltà di straordinaria importanza. Infatti, da secoli il Dies Dominica, cioè il giorno del Signore, scandisce il ritmo delle settimane non solo dal punto di vista liturgico, ma del significato più vero del tempo stesso. Non si tratta, infatti, solo di salvaguardare il giorno di riposo, necessario al recupero di energie in vista del successivo ciclo lavorativo, ma di comprendere il ritmo più autentico della vita.
L’uomo ha bisogno di un tempo che non sia dominato dalla logica del lavoro e della produzione, ma che sia il dono di una signoria diversa da quella delle occupazioni dei giorni feriali; un tempo del riconoscimento della gratuità del reale (la domenica fa memoria del riposo di Dio al termine della Creazione), per ricordare che occorre un momento di contemplazione allo stato puro, in cui l’io possa aprirsi alla gratitudine e al ringraziamento, libero dalla preoccupazione di possedere l’esito di ciò che esiste. La domenica segna così la verità del tempo perché non è un giorno che nasce da un nostro possesso o dalla pretesa delle nostre programmazioni, ma appartiene al Mistero di Dio, fonte di abissale gratuità non barattabile con alcun altro bene (non a caso, la domenica ha sempre ricordato alla civiltà mercantile che il tempo non è solo denaro, ma è anzitutto il luogo dell’incontro con l’Eterno che non ha prezzo).
Tutto ciò sarebbe però solo un simbolo tipico delle società arcaiche (bisognose di rifarsi sempre al mito cosmogonico dell’Origine), se non ci fosse dell’altro con cui la civiltà post-industriale deve fare i conti se non vuole rimanere imprigionata nei suoi riti secolarizzati del divertimento, della televisione, del calcio o della spesa ai supermercati sempre aperti: senza un tempo qualitativamente diverso dalla ferialità non si può vivere, perché la noia e la ripetitività ucciderebbero il desiderio di felicità che spinge al di là dell’angusto orizzonte dell’utilitarismo. La domenica è una necessità non solo perché ricorda il riposo della Creazione, ma perché dopo Cristo segna l’inizio della vita rinnovata dalla Pasqua di Resurrezione, vale a dire il giorno della Signoria della vita sulla morte, del senso sull’assurdo, dell’amore sulla devastazione del male. Perciò, ormai da secoli, il Cristianesimo non pensa alla domenica come al giorno finale della settimana, ma semmai come al primo giorno di un tempo nuovo definito dalla gioia di sapersi salvati ed uniti a tutti gli uomini nel rinnovato ordine cosmico inaugurato dalla Redenzione.
Per cui non si può vivere senza la domenica, perché mancherebbe il segno della speranza realizzata quando il tempo è strappato dalla ripetitività annoiata della solitudine e dell’assurdo, e in questo senso difendere la domenica è una grande sfida da vincere perché l’uomo viva libero dalla schiavitù dei risultati, affrancato dal peso dell’ansia di un io alienato dai ritmi creati da lui stesso. Ma perché la speranza di un tempo diverso non rimanga pia illusione, occorre che la libertà del singolo riconosca il popolo radunato dalla gioia della signoria di questo tempo salvato: è per questo che la Chiesa da sempre ha chiesto non solo l’adempimento del precetto liturgico, ma il gusto del ritrovarsi insieme per “fare festa” in uno stile di fraternità, perché nell’anonimato generale la domenica diventi anche giorno dell’amicizia e dell’uscita dalla solitudine, il giorno per ritornare a vivere.