Il gusto della verità
Fuori del Coro | n. 25-2002
“Si è andato diffondendo negli ultimi cinquant’anni un pensiero che insiste sempre sui soliti tasti: non ci sono fondamenti, non ci sono più dimostrazioni, non ci sono verità superiori ad altre. E così tutti, laici e credenti, abbiamo perso il gusto della giustificazione del vero e del falso, del buono e del cattivo, del giusto e dell’ingiusto. Non mi piace generalizzare, ma vedo una pericolosa timidezza verso la verità. Bisogna uscirne”. Non sono parole di qualche ecclesiastico, ma passaggi di un intervista del Presidente del Senato Marcello Pera che mettono a tema la questione più radicale su cui si gioca oggi la discussione in atto sulle radici culturali dell’Europa e sul contributo che le religioni possono dare alla stesura della Carta costituzionale europea.
Un diffuso pregiudizio fa pensare che ogni affermazione della verità faccia diventare intolleranti e violenti, tanto che dall’Illuminismo in poi l’idea di tolleranza è stata vista come l’unica modalità per legittimare le diversità tra le varie confessioni religiose e garantire il rispetto delle opinioni. Ma l’ambito della verità non è quello della tolleranza, bensì della ragionevolezza; perciò giustamente Pera lamenta che il relativismo è un pensiero corrosivo che, mettendo tutto sullo stesso piano, si esime dal giudizio conoscitivo, cercando un impossibile neutralismo etico incapace di condurre a scelte veramente valide. Infatti, se tutte le opinioni sono allo stesso modo legittime, significa che nessuna è in sé vera e che su nessuna si può costruire un’adeguata convivenza, poiché su nessuna si può argomentare o dare autentica giustificazione. Così bene e male si confondono e facilmente si scade nella violenza.
Ma che c’entra questo con l’Europa? C’entra, perchè l’Europa ha bisogno di ritrovare la verità di sé: questo rende essenziale il richiamo alle radici cristiane, non certo per proporre un ritorno al confessionalismo, e neppure solo per difendere il principio della libertà di coscienza, ma proprio perchè i fondamentali principi della nostra civiltà si radicano nelle verità umane che la fede ha introdotto nella storia europea: il rispetto della dignità della persona nella sua irripetibile singolarità, la difesa della vita dalla nascita e in tutto l’arco della sua crescita sino ad una morte dignitosa, la tutela della famiglia come luogo dell’educazione e della relazione tra le generazioni, il valore della cultura come rielaborazione del significato della realtà, la giustizia e la solidarietà come fondamenti della convivenza civile, l’idea di un bene comune irriducibile alla pura somma degli interessi dei singoli.
Riproporre in atto questi valori, riconoscendone l’origine cristiana, non solo non mortifica affatto la laicità delle istituzioni politiche, ma ridà loro un’anima indirizzandole verso quei significati che hanno fatto grande l’Europa suscitando un sentimento di appartenenza ben più grande di quello che nasce dall’avere in tasca la stessa moneta. L’uomo si sente a casa sua quando appartiene ad una cultura, quando la sua dimora è costruita su un giudizio chiaro sulle cose, su un pensiero radicato nella verità e perciò giustificato in modo incontraddittorio.
Ma che cos’è la verità? Forse la definizione migliore è ancora quella di S. Tommaso quando dice che la verità è l’adeguazione del pensiero alla realtà, cioè la corrispondenza tra le cose e la nostra ricerca di un loro univoco significato. Per questo non bisogna avere paura del desiderio di verità, né bisogna ridurlo ad una formalistica collocazione della parola Dio nel testo costituzionale: ciò che permette una buona convivenza è la certezza che la verità esiste e che a tutti è possibile cercarla con la forza del pensiero, poiché l’uomo è “fatto” per la verità.