Il Meeting della felicità
Fuori del Coro | n. 29-2003
“C’è un uomo che vuole la vita e desidera giorni felici?”: il titolo della XXIII edizione del Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione irrompe nella pigra estate dell’afa insopportabile rompendo gli schemi e ponendo una questione quasi impertinente.
Chi non vuole essere felice? Chi negherebbe che ogni uomo si muove solo per la ricerca almeno della sua soddisfazione se non proprio della felicità piena? Eppure questa domanda (che echeggia un salmo della Bibbia e che ogni buon abate benedettino porgeva ai novizi che intendevano entrare in convento per dedicarsi alla vita monastica) sembra fuori da ogni interesse pubblico ed esclusa da ogni preoccupazione sociale e politica, tanto che il rischio è che persino il Meeting di Rimini venga seguito più per l’attrattiva di illustri personaggi della politica e della cultura, che non per la verità della questione che intende porre.
Non è un caso che i responsabili della manifestazione abbiano voluto spiegare che il tema di questo Meeting è la vocazione, cioè quel misterioso ed irripetibile destino che riguarda ogni persona nella sua unicità e singolarità, chiedendo una risposta a ciò cui si è ontologicamente “destinati”, a ciò per cui si è stati fatti (la Bibbia direbbe “creati”) e verso cui è ragionevole tendere per conseguire appunto la felicità, che altro non è se non la pienezza di ciò per cui vale la pena di esistere. Quindi il tema non è lo “star bene”, il successo, il benessere, la fortuna, la buona sorte, l’appagamento dei desideri, la risposta ai bisogni, ma la radice stessa di ognuna di queste pur legittime aspirazioni, ossia quel desiderio di vita compiuta che anima ogni uomo sin dall’istante in cui viene alla luce.
La parola felicità è ormai così abusata ed equivoca che è quasi impossibile usarla per descrivere un uomo seriamente impegnato con la realtà; eppure proprio il Cristianesimo dei Ciellini non smette di proporla nel suo vocabolario, ostinandosi a dire che la fede non riguarda solo l’al di là, ma è la decisione con cui la libertà del singolo riconosce la presenza di Dio nella vita muovendola a gustare ogni briciola di bellezza e di positività. Perciò volere giorni felici non significa sognare l’utopia del mondo perfetto, neppure proporsi come i pedanti critici di ciò che non va o come gli antipatici moralisti che vedono il demonio dappertutto, ma diventare “uomini veri” capaci di guardare al destino come al compimento dell’umano così come Dio lo ha pensato nella Creazione e salvato nella Redenzione.
Ma nella domanda è sempre implicata la risposta; per cui quando il salmo chiede se c’è un uomo che desideri giorni felici, aspetta la risposta che non può essere impersonale o collettiva, generica o neutrale. La risposta implica la presenza dell’io, cioè di quel misterioso centro di libertà in cui si gioca (non fatalisticamente, ma liberamente appunto) tutto il destino della persona e in cui quindi si decide la salvezza o meno della vita. Per il Cristianesimo il destino è contenuto nella vocazione, ossia nella chiamata all’essere che Dio rivolge ad ognuno e che chiede una risposta della libertà, visto che – come diceva S. Agostino – “quel Dio che ti ha creato senza chiederti il permesso non ti salverà senza il tuo consenso”. Perciò il Meeting della felicità diventa il Meeting della libertà, ossia della responsabilità di ogni singolo credente, e di quel popolo nuovo che è la Chiesa, nei confronti della Storia. E la sfida si gioca qui: non si è incidenti se si ha un partito, se si posseggono mezzi economici, o se si esercita un potere mondano, perchè la Storia cambia se c’è un soggetto libero e responsabile, un io capace di desiderare l’Eterno e di rispondere in prima persona, senza esitazione, alla domanda sulla felicità.