Il valore del tempo 2
Fuori del Coro | n. 44-2000
La contiguità delle feste di Ognissanti e della commemorazione dei Defunti invita a qualche riflessione sul valore del tempo. Già la stagione autunnale rende forse più pensosi sul ciclo dell’esistenza che trascorre, ma soprattutto la meditazione sulla morte e sull’eternità beata vissuta dai Santi del Paradiso induce a considerare più a fondo il mistero del tempo, invitando ad una sosta. Come già diceva S. Agostino, il tempo ci definisce dall’interno e non è una dimensione esterna: percepiamo, infatti, il passato e il futuro come presenza alla coscienza della memoria e dell’attesa, oppure siamo affannati di quanto ci attende o nostalgici per quanto abbiamo alle spalle, proprio in quanto riferiamo tutto ciò che accade all’unità dell’io. Il tempo è perciò distensione dell’anima e non semplice registrazione di momenti esterni a noi.
Non potremmo però percepire il valore del tempo se non lo misurassimo sull’orizzonte dell’eternità, che insieme ci affascina e ci strugge nella domanda su come ogni singolo istante (l’attimo fuggente) possa rapportarsi con l’esigenza di stabilità e di durata che intuiamo essere l’unica garanzia di ogni esperienza. Ci spaventa l’evidenza che tutto finisca e che nulla riesca a sfidare il logorio del tempo (anche la cosa più bella è sempre minacciata dall’insidia del suo termine), e la morte appare come la più bruciante sconfitta di ogni tentativo di durata. Eppure, come dice un canto che ho imparato nella mia giovinezza, “tutta la vita chiede l’eternità”, altrimenti la nostra voce sarebbe solo il grido di “un uomo che non c’è”, poiché l’uomo non può accettare che tutto finisca senza un significato che trascenda il tempo. Anzi, è proprio questo nesso con l’Eterno che dà dignità alle azioni e alle fatiche di ogni giorno.
Per questa ragione la Chiesa ricorda prima i Santi (gli uomini che sono riusciti in quanto hanno accolto la dimensione eterna di Dio nella loro quotidiana esistenza), e poi richiama realisticamente alla morte, strappandola però alla prospettiva della disperazione, indicando i Defunti non come oggetto di una nostalgica e struggente memoria, ma come il tramite del rapporto alla Vita eterna (come ogni religione dell’umanità ha sempre creduto proponendo il culto dei morti come via al destino di tutti).
Sono pensieri gravi che sfuggono normalmente alla coscienza indaffarata delle nostre giornate, ma che servono a combattere la noia che a volte ci assale quando consideriamo il ripetersi quasi ciclico di situazioni che sembrano sempre identiche. Ma, a ben pensarci, sono i nostri pensieri che sono sempre identici: non c’è giornata che non presenti aspetti nuovi dell’esistenza, facce nuove o tratti insospettati tutti da scoprire, situazioni capaci di riservare sorprese. Basterebbe alzarci al mattino con un occhio un po’ più limpido ed attento per scoprire quanto la realtà ha da dire che prima non ci aveva ancora detto. La noia non nasce dalla realtà; sono i nostri pensieri a diventare noiosi quando si intestardiscono sugli stessi pregiudizi, poiché non c’è mai pura ripetizione di eventi. Basterebbe concepire il tempo come lo spazio della scoperta e tutto diventerebbe d’un tratto interessante e positivo, capace di destare nell’anima stupore ed interesse.
Lo sanno i Santi e lo sanno i nostri morti, che rimpiangiamo proprio perché ci sembrano distanti e consegnati solo allo struggimento dei nostri pensieri. Solo chi ha uno sguardo sull’Eterno scopre, invece, il vero significato del tempo che ci è consegnato; un tempo dato perché possiamo restituirlo come dono gratuito a chi incontriamo. Perciò aveva ragione quel vecchio confessore che, parlando del tempo, mi disse un giorno “bisogna realizzare tutto il Bene che è possibile fare, finché se ne ha il tempo”.