La dignità del lavoro
Fuori del Coro | n. 18-1995
Quest’anno la celebrazione del Primo maggio ha messo in luce tre questioni: il dramma della disoccupazione, la riforma delle pensioni e il problema del Mezzogiorno. Si tratta di tre nodi da cui dipende il futuro dell’Italia, e certamente i lavoratori hanno celebrato la loro festa con una certa preoccupazione più che con ottimismo.
In primo luogo la disoccupazione ferisce il desiderio stesso che ogni uomo ha di contribuire con il proprio lavoro al bene della società, e crea gravi difficoltà nelle famiglie; l’aspettativa sulle pensioni introduce una grande incertezza sull’esito della propria vita lavorativa, togliendo tante sicurezze coltivate durante la fatica di anni; il mancato decollo produttivo del Mezzogiorno pone inquietanti domande sulle prospettive di una parte del Paese, che sembra abbandonata ad una sostanziale frustrazione, soprattutto delle giovani leve.
Ma c’è una domanda che pare sfuggire alle celebrazioni ufficiali della Festa del Lavoro, ed è quella più radicale: perché lavorare? Che senso dare alla fatica quotidiana del lavoro?
È quasi ovvia la risposta che si lavora per vivere, per avere i mezzi economici necessari alla sopravvivenza, ma ciò non basta. Si potrebbe dire che si lavora per produrre, ossia per trasformare la materia prima in prodotto fruibile e vendibile sul mercato; ma anche questo è riduttivo perché coglie solo un aspetto del lavoro, escludendo il valore di molte attività di cui non si riesce a misurare la produttività (si pensi al lavoro intellettuale, educativo, assistenziale di cui è impossibile quantificare gli esiti in termini produttivi).
Occorre invece recuperare la dimensione soggettiva del lavoro, quella per cui ogni attività partecipa della trasformazione della realtà in quanto tende ad umanizzarla, cioè a renderla significativa per l’uomo. Ogni professione è un prendersi cura di una porzione di mondo che è affidata al lavoratore perché attraverso la sua attività sia trasfigurata: non importa se si esercita la più alta professionalità o la più umile mansione, ciò che conta è la coscienza con cui “l’uomo del lavoro” contribuisce al bene di tutti.
Ma andando ancora più al fondo della questione, si può dire che il senso del lavoro è l’uomo stesso che lo compie, esprimendo in esso la passione e il desiderio di realizzarsi come persona. Ritorna l’eco di quanto il Papa scriveva nel 1981 nella sua enciclica Laborem Exercens: “mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, diventa più uomo”; ad indicare la dimensione soggettiva del lavorare, il cui scopo non può essere solo quello di produrre qualcosa al di fuori di sé, ma di dare consistenza ed utilità al tempo della vira. Perciò la prima impresa è dare senso alle cose che si fanno, sapendo che l’azione rimanda sempre ad un orizzonte più profondo di quello strettamente produttivo. Infatti ogni lavoro crea rapporti tra gli uomini, introduce uno scambio di risorse e di opportunità, permette degli incontri, trasforma l’opacità della materia, ma soprattutto implica il destino stesso della persona.
Certo, la disoccupazione rende tutto più difficile, avvilisce la laboriosità, induce disperazione deprimendo le energie; per questo bisogna riscoprire una vera solidarietà capace di liberare la creatività imprenditoriale e di sostenere nuove iniziative, favorendo una cultura del lavoro libera dai lacci dello statalismo assistenzialistico, dalla burocrazia e dai vincoli delle lobbies politiche o economiche. Per ogni uomo la questione del lavoro è assolutamente decisiva, perciò giova ricordare le parole del manifesto di presentazione di un convegno dell’API-Colf svoltosi a Varese qualche anno fa: “Conserva l’interesse per il tuo lavoro per quanto umile; è ciò che realmente possiedi per cambiare le sorti del tempo”.