La fine di un mondo
Fuori del Coro | n. 27-2004
Il 28 giugno 1914 veniva ucciso a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando e quel fatto dava inizio alla prima Guerra mondiale. Ricordare l’attentato novant’anni dopo significa riconoscere il carattere epocale di quell’evento che chiude un periodo storico e ne apre un altro segnando una svolta irreversibile per il mondo.
La Grande Guerra costituisce, infatti, il primo esempio di conflitto non limitato alla sfera di singole nazioni come nell’Ottocento, ma realmente planetario dal momento che interessò non solo i due grandi blocchi europei (gli Imperi centrali e le nazioni liberali), ma il mondo. Si tratta, infatti, di un conflitto che preparò la logica dello scontro bipolare radicando l’idea che le forze del Bene (le democrazie) dovessero battere quelle del Male, in una tragedia che per la prima volta coinvolse in maniera radicale le popolazioni civili e non solo gli eserciti. Si tratta, poi, di una guerra che non scoppiò per ragioni “nobili” (l’indipendenza, la difesa della libertà, l’assetto dei confini nazionali), ma per ragioni economiche e di affermazione di superiorità militare, al di fuori di una logica di “sistema” in grado di riconoscere istanze superiori, smentendo il lavoro diplomatico che un secolo prima il Congresso di Vienna aveva compiuto, al termine della difficilissima era napoleonica, per avviare i principi della legittimità dei confini e dell’equilibrio tra le nazioni vincitrici. L’attentato fu naturalmente solo il pretesto per dare inizio a quell’“inutile strage” (come la definì Benedetto XV) il cui scopo vero era l’affermazione dell’imperialismo dei singoli Stati contro l’universalistica concezione asburgica dell’Impero, fondata sul pluralismo delle etnie e sull’unione culturale cattolica garantita dall’Austria, provocando il crollo delle antiche potenze e la nascita di rancori insanabili che fanno da preludio al secondo conflitto mondiale.
Da allora il mondo è mutato più volte: la Rivoluzione Sovietica l’ha diviso in due blocchi economico-ideologici, l’avvento dei regimi totalitari (Nazismo e Fascismo) lo ha privato della libertà e lo ha spinto alle violenze più impensabili, la “guerra fredda” lo ha tenuto sul filo della paura per oltre quarant’anni, la globalizzazione sembra ora unificarlo nell’ottica della libertà del mercato anche se lo omologa cancellando la ricchezza delle differenze tra i popoli: il tutto entro l’odierna comunicazione planetaria che restituisce i fatti in tempo reale.
Eppure nell’immaginario collettivo (quello che solo fino a qualche decina di anni fa era raccontato dai nostri nonni) la Grande Guerra rimane indelebile per i suoi caratteri di eroismo (era ancora una guerra del coraggio individuale e non delle tecnologie sofisticate), e per la sua carica di tragedia (non vi fu praticamente famiglia che non conobbe il lutto per qualche caduto), poiché fu forse l’ultima guerra combattuta per una posta in gioco che si poteva chiamare per nome, la lotta per la patria, capace anche di cementare l’esperienza comune della fatica e della sofferenza, vissute per un senso di appartenenza nel leale rispetto verso il nemico. Al tempo stesso, però, gli assetti politici imposti dai vincitori nel dopoguerra furono la causa del crearsi di blocchi ancor più contrapposti e violenti, accreditando l’idea che la guerra fosse l’unico strumento per risolvere le dispute tra gli Stati (non è un caso che l’impegno sistematico della Chiesa per la pace inizi, invece, proprio dai moniti di Benedetto XV sull’urgenza di ritrovare riferimenti sovranazionali).
Oggi il mondo è assai diverso da quel giorno di Sarajevo, ma rimane istruttivo ripensare a cosa quell’evento ha messo in moto in questi novant’anni per trarne qualche insegnamento.