La forza dei gesti
Fuori del Coro | n. 28-1995
Decisamente il pontificato di Giovanni Paolo II non cessa di stupire e di riservare sorprese: il vecchio Papa, che qualcuno vorrebbe dare al termine della sua missione apostolica, continua a porre mano ad iniziative di straordinaria novità (come la splendida lettera alle donne, su cui varrà la pena tornare prossimamente), pur di presentare la Chiesa nel suo vero volto allo scadere del secondo millennio.
Le scorse settimane sono accaduti due eventi che non è esagerato definire epocali, nonostante che la stampa non abbia dato loro tutto il risalto che meritavano. Intendo parlare dell’incontro a Roma con il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I e dell’omaggio reso a Presov ai calvinisti uccisi dai cattolici nel 1687. Si tratta di due momenti forti di quel processo ecumenico cui papa Wojtyla ha recentemente impresso una decisa accelerazione con l’enciclica “Ut unum sint”, e che trova il suo suggello storico nell’evidente eloquenza di alcuni gesti suggestivi.
Con la Chiesa ortodossa i legami, spezzati dallo scisma d’Oriente del 1054, si sono fatti più stretti con lo storico abbraccio tra Paolo VI e il Patriarca Atenagora del 1964, ma la recente visita a Roma e la comune benedizione dalla loggia della Basilica Vaticana, impartita dai successori di Pietro e di Andrea, testimoniano l’accadere di qualcosa di veramente nuovo: la logica dell’unità fondata sul mistero di Cristo è più grande della divisione disciplinare che ha contrapposto Roma a Costantinopoli, e supera le reciproche scomuniche pur mantenendo aperta la coscienza delle diversità. Al di là della lacerazioni della storia, questo testimonia che il dialogo è sempre possibile quando gli interlocutori cercano insieme la verità.
Non meno significativo è il secondo gesto ecumenico del Papa compiuto durante il suo recente viaggio in Slovacchia, in cui ha chiesto nuovamente perdono per le intolleranze della storia proprio nel cuore della vecchia Europa, nel punto di intersezione tra Oriente ed Occidente, riconoscendo il significato del martirio di quanti hanno perso la vita per rimanere fedeli ai convincimenti della loro coscienza. Così il Vescovo di Roma chiede perdono – e lo ha già fatto parecchie volte in questi ultimi mesi di pontificato – non in nome di un senso di colpa o per un complesso di inferiorità nei confronti di avversari storici, ma per la profonda convinzione che il perdono è la forza che muove la storia verso il cambiamento sostanziale. Dunque non la rinuncia alla chiarezza dottrinale e alla certezza della posizione cattolica, ma il riconoscimento che la verità può vincere nel tempo solo se si accompagna alla carità vera, cioè al rispetto della diversità che diventa amore per l’altro e comprensione del proprio ed altrui errore, in una compagnia per ritrovare la strada comune.
Questi due gesti testimoniano la capacità della Chiesa di essere il luogo in cui il dialogo è possibile come apertura concreta all’altro, insegnando al nostro rissoso mondo che le ragioni dell’unità stanno prima delle divisioni o delle troppo facili convergenze su interessi parziali. Il vero ecumenismo non è questione per addetti ai lavori di cose religiose, ma riguarda il metodo con cui affrontare tutte le questioni, ben al di là dei congressi di partito o dei convegni di corrente. Ciò che vale di più non sono però le parole, ma la forza dei gesti concreti come quelli compiuti senza spettacolarismi da Giovanni Paolo II.