La risorsa della giovinezza
Fuori del Coro | n. 15-2007
La tragedia della strage nel campus di una prestigiosa università americana, come d’altra parte alcuni fenomeni di bullismo nelle nostre scuole, oppure l’aumento dei suicidi in età adolescenziale e giovanile, sono il segno inquietante di un disagio delle nuove generazioni che sarebbe colpevole ignorare. Perché la giovinezza, l’età che poi spesso si rimpiange da adulti, è così costellata di dolore e sofferenza sino a giungere a conclusioni così tragiche o violente? La prima cosa da interrogare per trovare risposta è proprio il rapporto tra giovani ed adulti, che spesso è conflittuale ed ancor più spesso è segnato da indifferenza ed estraneità: con troppa sufficienza e superficialità i cosiddetti “grandi” guardano i “piccoli” come se le loro domande fossero ingenue o sciocche, come se l’adolescenza e la giovinezza fossero “età stupide”, dimenticando quanto quel ribollire di domande “serie” (quasi metafisiche) dei giovani sia insostituibile presenza che provoca la coscienza degli adulti a ricordare che la giovinezza non è una malattia che si deve aspettare solo che passi, bensì una grande occasione per vivere autenticamente l’umano.
La prima domanda del giovane risuona così: “ed io che sono?”. Oppure qual è il mio destino? Per che cosa sono fatto? Verso dove è giusto andare? Domande che poi la vita si affretta a far dimenticare per non accettare il “caso serio” dell’esistenza che è ricerca della ragione di tutto, del significato di ogni cosa. Il giovane, invece, non ha paura di chiedere e di interrogare, anche se poi insorge la delusione perché gli adulti non rispondono, sfuggono, si rifugiano nella reticenza di chi ha paura di mettersi in gioco. Ed allora o scatta la molla della disperazione perché ci si convince che la risposta non esiste e che tutti siamo condannati al nichilismo, oppure ci si abbandona allo scetticismo di chi pensa che sia inutile anche solo porsi questo genere di domande, o peggio ci si scatena nella violenza della protesta contro una vita che non mantiene le sue promesse e che perciò va punita perché ha tradito le aspettative che aveva suscitato; sino a che tale punizione giunge persino all’eliminazione fisica di sè e degli altri, in una vendetta onnipotente e disperata che non può accettare la frustrazione del limite.
Così la giovinezza, privata della risposta alla sua naturale apertura verso l’Infinito, si trasforma da ricca di aspettative e promesse in una disordinata forma di protesta. La giovinezza è la grande risorsa con cui il Mistero dell’esistenza ci mette in pista per realizzare la nostra personale vocazione umana, ma se nessuno indica la strada si trasforma in una corsa verso l’assurdo come dimostrano le tragedie ricordate all’inizio.
Al contrario è solo una speranza che può orientare un giovane verso la realizzazione del meglio di sé, ma – come diceva Peguy – “bisogna aver ricevuto una grazia ben grande per poter sperare”. E la questione è proprio questa: da dove può venire la speranza grande che permette di sfidare la vita a costruire un destino positivo? Solo dall’incontro con adulti che sperano, da uomini per i quali la vita non sia una “selva oscura”, ma un sentiero tracciato verso la verità del compimento di tutto l’umano. Il giovane, infatti, non è un piccolo adulto, ma è la promessa di divenire adulto, la possibilità di dare fondo a tutte le proprie risorse per costruire qualcosa di nobile e dignitoso.
Ma perché questo avvenga occorrono degli educatori, uomini che hanno esperienza della vita e del suo vero significato, che sappiano trasmettere il gusto della bellezza e della libertà; occorrono genitori, insegnanti, educatori che sperino e trasmettano la speranza, perché l’origine della creazione è buona: basta solo riconoscerla!