La vita non si replica
Fuori del Coro | n. 27-1995
Le sofisticate tecnologie della digitalizzazione computerizzata delle immagini permettono dei veri miracoli: è di pochi giorni fa la notizia che potremo rivedere sugli schermi l’immagine di Marilyn Monroe nell’ultimo impossibile film che non ha mai girato. Ebbene sì, trent’anni dalla morte non ci impediranno di far rivivere il mito della bionda che ha fatto impazzire il mondo, riproponendoci delle immagini elettroniche così verosimili da essere quasi un insulto alla memoria della bella attrice. La tecnica riesce infatti a far rivivere chi è morto, creando per lui situazioni o circostanze mai vissute ma solo replicate attraverso la campionatura di fotogrammi di vita reale ricomposti in una scelta di immagini più simili a quelle dei cartoni animati che a quelle riprese dal vivo.
D’altra parte ci stiamo abituando un po’ tutti a pensare che la vita possa sempre essere replicata: l’uso del videoregistratore domestico ci ha insegnato a rivedere spettacoli già trasmessi attraverso il tasto del replay; la realtà virtuale sta aprendo spazi all’immaginazione che fanno svanire i confini del reale; le tecniche di manipolazione delle immagini sono in grado di creare all’infinito scene che, mediante l’elaborazione computerizzata, fanno scoprire prospettive inaspettate.
Ma che cos’è la realtà vera? e come si esercita la memoria di fronte all’istante? La domanda non è peregrina, poiché siamo sempre meno capaci di vivere l’esperienza dell’assoluta irripetibilità ed originalità di ogni singolo istante dell’esistenza. Spesso la vita viene vissuta come l’interminabile replica di attimi identici a se stessi, fissati in una fondamentale insignificanza; al punto che suggestivamente il noto film Blade Runner propone l’idea dei “replicanti”, ossia di ominidi perfettamente identici all’uomo, privi però di sentimenti e senza memoria storica, che differiscono di poco dagli uomini veri.
Eppure dobbiamo convincerci che la vita non è mai replicabile, come neppure un testo teatrale può essere interpretato in modo assolutamente identico da una rappresentazione all’altra. La vita è dentro la logica della ripetizione come capacità di “chiedere nuovamente” il senso delle cose, per cui richiede radialmente la dinamica della ripresa, ossia dalla tensione a riscoprire il nuovo dentro la permanenza della coscienza dell’io. È ultimamente disperante cercare di riprodurre qualche momento felice replicandolo con la memoria. Ogni istante vissuto è inesorabilmente passato: l’unica cosa ragionevole è l’apertura ad altro nella mossa della continua ripresa, intesa – diceva Kierkegaard – come movimento verso la trascendenza. Solo se c’è capacità di ripresa ha senso ricordare qualcosa di gradito, altrimenti rimane solo lo struggimento della nostalgia; così come “per sperare bisogna aver ricevuto una grande grazia” diceva Peguy, ad indicare che la speranza nasce da qualcosa che è accaduto nella vita e che può essere sempre ripreso, ma mai reduplicato.
Per questo non si tratta di far rivivere artificialmente il passato, ma di recuperare nell’istante i veri motivi della ripresa di speranza, ricordando, come ancora scriveva Kierkegaard, che “la speranza è un vestito nuovo fiammante, che non fa pieghe né grinze, ma non puoi sapere se ti va, né come ti va, perché non l’hai mai indossato. Il ricordo è come un vestito smesso, per quanto bello non puoi indossarlo, perché non ti entra più. La ripresa è una veste che non si può consumare, che non stringe né insacca, ma dolcemente aderisce alla figura. La speranza è una bella fanciulla che ci guizza via dalle mani. La ricordanza è una bella vecchia che non ci offre mai quel che ci serve nel momento. La ripresa è una sposa amata di cui non accade mai di stancarsi”.