Le insidie del troppo lavoro
Fuori del Coro | n. 31-2006
La fine delle vacanze con la ripresa dell’attività lavorativa rappresenta sempre un passaggio difficile: partire dalla quiete distesa delle ferie e tornare ai ritmi frenetici del lavoro è una specie di trauma psicologico, provocato dall’improvviso cambiamento delle attitudini mentali e della concreta organizzazione del tempo e delle energie. Il superlavoro è alle porte e per combattere lo stress dell’inizio normalmente si prende lo slancio e ci si ributta dentro “di schianto”, senza gradualismi, onde evitare ogni rimpianto delle ferie lasciate. Così in pochi giorni ci si dimentica delle vacanze e la routine quotidiana riprende nuovamente il sopravvento su tutto, invadendo ogni pensiero con la banale durezza dei suoi contenuti.
C’è anche da dire che viviamo in una società che non lascia spazio ai ripensamenti: il mito dell’efficienza e della velocità spegne ogni “tentazione” di riflessione distesa e pacata e spinge ad un certo cinismo, perché il lavoro è visto solo nella prospettiva del risultato ad ogni costo, e finisce spesso a “rubare” la vita togliendole quella profondità che un tempo meno affannoso consentirebbe. Ma sono discorsi lontani dal tipo di civiltà in cui viviamo, dove riflessione e contemplazione appaiono nel migliore dei casi un lusso che solo i ricchi si possono permettere (anzi cui nemmeno loro possono acconsentire senza una perdita di denaro che neanche a loro sembra permessa). Ma spesso il gettarsi in mille attività è un modo per fuggire da sé e dalla realtà, diventa una forma di oppio per non fermarsi a cercare il senso delle cose, così che il sentirsi “occupati” appare più come la scelta di non misurarsi con questa ricerca di significato che non come una reale necessità. Lavorare può diventare il modo per non pensare troppo, per non farsi domande impegnative, e l’occupazione forsennata del tempo diventa l’alibi per non sentirsi soli o per allontanare quel senso di vuoto (gli antichi lo chiamavano “horror vacui”) che può prendere quando si è inattivi. Ma così il fare prevale sull’essere, e il criterio di valore è più consegnato all’azione in quanto tale che non al soggetto che la compie.
Anche per queste ragioni colpisce nel segno il monito lanciato domenica scorsa da Benedetto XVI che, memore del richiamo di S. Bernardo, invita a “guardarsi dall’attività eccessiva” (qualunque sia il ruolo sociale o il compito cui si è preposti), poiché “le molte occupazioni conducono spesso alla durezza del cuore e non sono altro che sofferenza dello spirito, smarrimento dell’intelligenza, dispersione della grazia”. Non si tratta, evidentemente di un invito all’ozio, dal momento che il lavoro è fondamentale nella costruzione/realizzazione della persona e nella crescita della società, ma semmai di un richiamo a non farsi fagocitare dalle cose e soprattutto dalla tentazione che sia quel che facciamo a salvarci. Il problema è, infatti, credere che il nostro fare sia il modo per liberarci dalla schiavitù del limite, per cui tutto sta nel risultato prodotto o nell’utilità presunta dell’agire, sino a togliere a chi non fa il suo pieno diritto di esistere. E ciò conduce di fatto a dimenticare che ognuno è definito dalla sua ricerca di felicità prima che dal suo ruolo, e che la Verità non è il prodotto aggiuntivo di sforzi continuati, ma è il risplendere del significato della vita.
Interessante è comunque che a dire queste cose sia il Papa (che è, per definizione, l’uomo più occupato del mondo, portando sulle sue spalle il peso di una responsabilità unica): anche per lui vale il monito che preoccuparsi troppo del fare rende duro il cuore, cioè allontana dall’incontro vivo con gli altri uomini, rendendo prigionieri dell’affanno del tempo e del ricatto dei risultati.