Pace e digiuno
Fuori del Coro | n. 08-2003
La sfida lanciata dal Papa al mondo con la giornata di digiuno del 5 marzo ha una portata storica che merita di essere compresa in tutti i suoi aspetti. Sarebbe, infatti, ingenuo, pensare che un giorno di penitenza di milioni di fedeli sia capace di fermare una guerra che forse è già stata decisa da tempo; tuttavia in quel gesto di persone che si privano di qualcosa per impetrare il dono della pace c’è il segno di un valore dell’intera Storia che ha in sé un potenziale di cambiamento da non sottovalutare. Ma quali sono le valenze umane della proposta tipicamente religiosa del Papa?
Anzitutto il digiuno nella tradizione cristiana ha il senso penitenziale di riconoscimento che l’uomo non è capace con le sue sole forze di costruire la giustizia e la pace che desidererebbe, e che perciò è più ragionevole porsi dinanzi all’Altissimo a domandare il buon esito degli eventi. Con ciò si vuole rimettere nelle mani di Dio quel destino che da soli non si riesce a governare, senza però rinunciare a nulla di quanto compete all’umana responsabilità. In questo caso c’è però un valore aggiunto: chiedere a tutta l’umanità di fare digiuno, proponendo un gesto comune a membri di tutte le religioni e di tutte le confessioni, significa affermare chiaramente che questa guerra non ha proprio nulla a che vedere con questioni religiose o di scontro tra civiltà. Anzi, ci si rivolge a Dio proprio perché illumini le menti di chi deve trattare interessi compiutamente terreni, affinché le scelte politiche siano per il bene di tutti e non solo per i fedeli di una parte.
Da qui il senso ecumenico di questo digiuno che non elimina le differenze tra religioni e popoli, ma invita a cogliere il punto in comune più radicale e profondo: il desiderio di vivere nella giustizia in un mondo che non sia dominato dalla paura, per seguire una strada buona percorribile da tutta l’umanità.
Certamente siamo tutti consapevoli che non ci si possono attendere “effetti magici”, ma già il mettere da parte la fiducia nelle armi per confidare nella libertà dell’uomo e nella sua capacità di “guardare in alto”, è un significativo passo tangibile di inversione di mentalità, che non può non avere ricadute sul consenso politico e sulle decisioni dei governanti. Aggiungerei poi che, qualora a breve la guerra scoppiasse, la memoria di questo gesto potrebbe mobilitare comunque il senso di una solidarietà verso le vittime innocenti, indicando il metodo per trovare nuove vie di pace anche alla fine del conflitto.
Nulla a che fare dunque con un vago “pacifismo cattolico”, ma la speranza semmai che l’uomo impari a superare la tentazione della vendetta immediata, dell’odio di rivalsa, dell’arroganza del vincitore; nel senso proprio di quell’ecumenismo che si radica nel naturale senso religioso che fa alzare il capo verso l’Infinito, cercando nella preghiera (magari ad un Dio Ignoto) la risposta ai drammi della Storia. Non c’è nulla che riguardi lo spirito di crociata in questo possibile conflitto; per questo è importante che proprio le massime autorità religiose si trovino insieme non tanto sull’improbabile possibilità di scongiurare la guerra, ma sulla capacità di ritrovare il senso vero della pace e della ricostruzione di una convivenza dignitosa tra uomini.
Da ultimo la prova del digiuno indica che la prima guerra da combattere è quella contro l’istintività con cui si guarda la realtà e ci si costruisce il nemico: imparare a dominare se stessi è la modalità tipica della Quaresima cattolica, che però aggiunge sempre anche una prospettiva di solidarietà reciproca, ad indicare che nessun combattimento (nemmeno quello spirituale) è fine a se stesso, ma è sempre funzionale al riconoscimento di un frammento di percorso comune che sempre è possibile costruire.