Politica, affari e bene comune
Fuori del Coro | n. 02-2006
Nel complicato ed oscuro intreccio tra politica, finanza, affari, scalate ai mezzi di comunicazione e giochi preelettorali di potere cui assistiamo in questi giorni, è difficile orientarsi e distinguere dove inizia la questione morale e quali siano i confini del lecito e dell’illecito; ma certamente lo scandalo maggiore viene dalla percezione che sia stata tradita la fiducia della gente, che la menzogna abbia ancora una volta prevalso sulla lealtà dovuta ai cittadini che vogliono una classe politica affidabile prima che abile. Esponenti politici di spicco si affrettano o a giustificarsi o a constatare che la disonestà regna in tutti gli schieramenti, accusando di volta in volta il sistema del finanziamento della politica o la responsabilità di singoli, ma rimane insanata la ferita del patto fiduciario tradito da interessi particolari che non hanno nulla a che fare con il Bene comune, con la conseguenza del diffondersi nella società civile di quel tarlo del sospetto che conduce a non potersi più fidare di nessuno.
La questione della fiducia è fondamentale per una buona convivenza sociale perché è l’unico antidoto alla considerazione degli altri come potenziali nemici da cui difendersi; ma se fiducia significa “affidamento a qualcuno”, essa può basarsi solo sulla verità, cioè sulla trasparenza di comportamenti verificabili che siano il più possibile a servizio di interessi universali e condivisi. Lo sconcerto di questi giorni nasce, invece, dalla constatazione della prevaricazione della menzogna che – come ha recentemente ricordato Benedetto XVI parlando al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede – “è sempre selettiva e tendenziosa, egoisticamente rivolta a strumentalizzare l’uomo e, in definitiva a sopraffarlo”, cioè volta ad affermare un particolare contro l’interesse effettivo di tutti. E la cosa grave è che si possa negare impunemente il dovere della verità o, almeno della veracità, proprio nella gestione del delicato rapporto tra politica (arte dell’amministrazione del potere pubblico) ed economia (pratica volta a creare benessere e fruizione di beni materiali): l’assenza di verità elimina, infatti, il terreno più adeguato all’incontro tra gli uomini, alla loro reciproca comprensione e riconoscimento, alla soddisfazione dei loro bisogni primari e dei desideri essenziali. E a sanare questa ferita inferta alla fiducia non basteranno le sanzioni giudiziarie o i “mea culpa” di qualche leader, perché la fiducia una volta perduta chiede un immane sforzo per essere riconquistata.
L’altro fattore mancante nei dibattiti sulla questione morale di cui si parla è la stima per il bene comune, inteso non come sommatoria dei beni individuali o come spartizione di ambiti o sfere di influenza in un politically correct tra maggioranza e minoranza, ma come insieme di condizioni effettive che consentano a tutti e a ciascuno la possibilità di piena realizzazione di sé, della propria autentica libertà, di una convivenza solidale, dell’espressione delle proprie capacità per il massimo vantaggio di tutta la società. Ma qui è evidente che la prevalenza dell’individualismo sociale, del relativismo etico, del nichilismo teorico, dell’indifferenza pratica fa la parte del leone, convincendo che non c’è nulla di positivo per cui valga la pena di lavorare per sé e per gli altri. Così il singolo e il popolo vengono diseducati all’impegno, perché manca l’indicazione di una meta buona da perseguire insieme, cui essere educati dal costume prima ancora che dalla legge. Su questo quanta ragione aveva Don Luigi Giussani ad esclamare “se il popolo fosse educato, tutti starebbero meglio!”: quello che ci manca è sempre più un’educazione al Bene, o almeno la tensione a cercarlo insieme.