Ricordando Paolo VI
Fuori del Coro | n. 38-1997
Il tempo è per fortuna galantuomo, e quanto più passano gli anni tanto più il vero valore degli uomini si staglia con nitida chiarezza sulla scena della storia: al di là del clamore della ribalta o della fama virtuale costruita dai media, la grandezza di un uomo si vede se resiste al tempo sfidando il giudizio effimero della contemporaneità stretta. Gli anniversari sono un’occasione di verifica, perché la distanza di decenni svela realisticamente la vera consistenza di una persona.
Cent’anni fa, il 26 settembre 1997, nasceva Giovanni Battista Montini, il grande Papa la cui statura diventa sempre più evidente in questo scorcio di millennio che finisce. Già diciannove anni fa lo spontaneo e commovente applauso al termine dei suoi funerali, all’uscita della sua umile bara da Piazza S. Pietro, disse quanto la storia fosse disposta a riconoscergli un ruolo ben più significativo di quanto gli avessero concesso in vita delle valutazioni solo emotive o ideologiche. Ed oggi il giudizio sulla sua grandezza è ancora più chiaro.
Si potrebbe dire molto della sua eccezionale finezza d’animo sostenuta da una non comune preparazione culturale; sono tante le sfaccettature della sua esistenza e della sua missione apostolica che si potrebbero citare; è sterminato l’elenco dei meriti acquisiti soprattutto come timoniere della barca di Pietro in uno dei momenti più difficili della vicenda della Chiesa del ‘900; ma altri, certo meglio di me, possono tracciare questo quadro. A me preme qui ricordare solo due fattori della sua fisionomia spirituale che hanno influenzato la mia giovinezza, rendendomi particolarmente cara la sua figura che spero possa essere presto annoverata tra i Santi della Chiesa, da lui tanto amata e fedelmente servita. Sto pensando alla sua capacità di dialogo e alla sua convinta adesione alla gioia cristiana, due tratti che ricordo anche per sfatare l’immagine di un Papa amletico, problematico, intristito dal dubbio o incerto sulla via da seguire: nulla è infatti più distante dalla sua vera consistenza spirituale radicata nella certezza indomita di una fede solida in grado di affrontare ogni circostanza, fosse anche la più dolorosa.
Il dialogo nasceva in lui come esigenza di apertura a tutto l’umano e di comprensione di ogni fattore positivo presente nella cultura, non certo dall’indecisione riguardo alla verità come se altre posizioni umane potessero aggiungere qualcosa alla persona di Cristo cui aveva aderito; per questo scrisse nella sua prima enciclica “dovunque l’uomo è in cerca di comprendere se stesso e il mondo, noi possiamo comunicare con lui; dovunque i consessi dei popoli si riuniscono per stabilire i diritti e i doveri dell’uomo, noi siamo onorati, quando ce lo consentono, di assiderci tra loro”. Ma dialogare esige chiarezza, mitezza, fiducia, prudenza perché la posta in gioco non è il successo mondano, ma la verità che precede i due interlocutori e li supera. In questa prospettiva Paolo VI ha saputo accettare anche lo scacco dell’incomprensione e persino dell’emarginazione, senza perdere la dimensione della gioia, cui ha dedicato una splendida enciclica nel 1975, nel pieno della contestazione ecclesiale. La gioia non è un superficiale godimento o una semplice fruizione delle cose, ma è l’approdo dell’umana ricerca di felicità, nella consapevolezza della distanza che “sempre sussiste tra la realtà e il desiderio di infinito” e nella convinzione che “la gioia nasce sempre da un certo sguardo sull’uomo e su Dio”. In lui questo sguardo era limpido: perciò sono particolarmente affezionato al suo volto, così capace di indicare la prospettiva positiva di un oltre. Dalla sua testimonianza ho imparato che la gioia nasce dalla valorizzazione di ogni frammento d’essere: solo chi accetta la vita come dono gratuito sa godere di ogni istante dell’esistenza.