Storia e utopie
Fuori del Coro | n. 08-1998
L’uscita in Italia del Libro Nero sul Comunismo, che compare in questi giorni in concomitanza con i centocinquantanni dalla pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista di Marx, riapre il dibattito sul significato dell’esperienza comunista, che ha percorso l’ultimo secolo con la pretesa di rigenerare l’umanità con una società fondata sull’eguaglianza.
Purtroppo la macabra contabilità delle vittime dei vari regimi comunisti sembra smentire le speranze di chi voleva un mondo migliore. Più di ottantacinque milioni di morti causati in tempi diversi dall’esperienza comunista fanno pensare più ad un genocidio che ad una normale dialettica politica: dalla rivoluzione sovietica al regime di Pol Pot, tutto concorre all’omologazione tra il genocidio di classe e quello di razza, ampiamente esecrato negli ultimi cinquant’anni. Ma è assurdo chiedersi se sia stato peggio Hitler o Stalin: la verità è che l’umanità deve fare un serio esame di coscienza sul secolo forse piò oscuro dei suoi ultimi duemila anni.
Naturalmente la classe politica della Sinistra, erede naturale del comunismo, si affretta per bocca dei suoi intellettuali organici a dissociarsi da questi crimini, riconoscendoli come tali ma addebitandoli alla follia di persone singole, come se l’ideologia che li ha provocati non ne fosse per nulla responsabile: è il gioco del separare il peccatore dalla radice del peccato, come se il marxismo (intendendo con ciò la dottrina di Marx e dei suoi epigoni) fosse del tutto innocente rispetto all’attuazione storica e potesse configurarsi solo come neutrale strumento di analisi.
Ma l’idea di rivoluzione e di lotta di classe non è stata assunta solo come ipotesi euristica, come modello di lavoro per vedere se era possibile cambiare la società: essa è diventata il fine storico che ha mobilitato le masse, in una lotta tesa ad eliminare l’avversario di classe, in piena coerenza con i presupposti filosofici del marxismo.
Oggi quasi nessuno crede più ai dogmi del veterocomunismo, ma occorre riconoscere che le radici di questo fenomeno, che non si può solo consegnare alla storia, sono profonde e scaturiscono da un’invenzione della cultura occidentale che si chiama utopia. L’utopia è, per definizione, un luogo che non c’è, che non esiste nel perimetro reale della storia degli uomini fatta di vizi, di limiti, di ingiustizie. Per superare questa intollerabile situazione, nasce l’idea di una società perfetta in cui non ci sia spazio per i limiti umani, in cui tutto venga pianificato in modo che ognuno sia obbligato a rinunciare al suo egoismo per realizzare la perfetta eguaglianza con tutti. Ma un tale progetto di trasformazione della convivenza umana, astraendo dalla reale capacità di male insita in ogni individuo, finisce a diventare totalitario e necessariamente violento. Infatti chi non obbedisce al modello proposto deve essere eliminato: il diverso non ha diritto di cittadinanza nella città ideale dell’utopia, perché dimostrerebbe che il progetto è fittizio e solo virtuale. Da Platone al pensiero utopico rinascimentale (Moro, Bacone, Campanella), sino al marxismo, la pretesa è sempre la stessa: il potere dello stato deve governare l’individuo rendendolo totalmente funzionale alla realizzazione dell’ideale perfetto, anche a costo di violentarlo nel suo stesso diritto di esistere. Ma ogni volta che la realtà è così stravolta in forza dell’ideologia (l’altro nome dell’utopia), è inevitabile che qualcuno debba essere eliminato: l’esito è la soppressione dei soggetti che non rinunciano ad autodeterminarsi e la negazione di ogni istanza di una verità più profonda dell’ideologia.
L’utopia finisce però a negare le evidenze della storia che prende comunque sempre la sua rivincita: non è lecito al potere sostituire la realtà con una sua immagine deformata, ed è questa la lezione che con onestà intellettuale vale la pena di ricordare.