Testamento biologico 1
Fuori del Coro | n. 10-2006
Lo hanno definito testamento biologico e del testamento ha la caratteristica di esprimere le ultime volontà sul modo di affrontare il delicato passaggio dalla vita alla morte, indicando se si vuole essere sottoposti a cure particolari di rianimazione o se si preferisce rinunciare ad interventi straordinari. Del testamento ha il carattere di atto libero e solenne, che esprime una volontà chiara finché si è capaci di intendere e di volere, tanto che il Prof. Veronesi ha proposto che abbia anche una riconosciuta veste giuridica tramite la registrazione in un registro nazionale. L’idea nasce all’interno di una cultura che fa dei diritti dell’io il centro dell’etica, rivendicando la cura del corpo come un possesso personale inalienabile, ponendo quindi il primato della volontà individuale al di sopra di ogni altra valutazione clinica ed enfatizzando la capacità del paziente di decidere (naturalmente quando sta bene) come organizzare il proprio trapasso e definire in proprio quale sia per lui la “migliore” morte, legittimando in sostanza l’eutanasia come espressione del rispetto delle volontà del paziente.
Ora, senza voler sminuire la gravità della decisione in gioco né togliere alcunché alla giusta libertà del morituro, balza subito agli occhi che, mentre in un testamento normale il de cuius dispone liberamente delle proprie cose rispetto a degli eredi prescelti, qui il soggetto vuole esprimere delle volontà su qualcosa che non gli appartiene del tutto e su cui non può esercitare un potere assoluto; per cui ogni indicazione su come proseguire o interrompere le cure in determinate situazioni dice solo un’intenzione, magari anche rispondente ad una concezione di vita del malato, ma non può vincolare chi ha il dovere istituzionale della cura né sostituirsi alla retta valutazione della competenza clinica.
Ne nasce, altrimenti, un conflitto tra la libertà del paziente (che nel testamento viene espressa in condizioni troppo diverse da quelle in cui verserà negli attimi finali di vita) e la professione del medico, cui non spetta certamente il diritto all’accanimento terapeutico (continuazione di cure inutili al solo fine di prolungare di qualche tempo un’agonia) ma tocca altrettanto il dovere di attivare ogni presidio terapeutico ragionevolmente proporzionato. Se è giusto superare una concezione paternalistica della medicina che sottrae al malato la responsabilità della sua salute, non è però né giusto né lecito obbligare il medico a sottostare a forme di “suicidio testamentario”; per cui è grande l’interrogativo sulle valenze etiche che le volontà espresse possono avere.
Ma c’è un ultimo aspetto non secondario che la proposta Veronesi rivela, ed è la concezione individualistica della vita e della libertà che ad essa soggiace, per la quale solo l’io può decidere di sé, senza riferimento né alle relazioni primarie (familiari ed amicali) né al rapporto con la trascendenza del Mistero dell’essere, dinanzi al quale prende il massimo di serietà ogni scelta (tanto più quella sulla fine del vivere). In fondo il testamento biologico, invece che lasciare qualcosa a qualcuno, intende sottrarre ad altri il peso della responsabilità di decidere riguardo a ciò su cui nessuno può veramente decidere, l’istante e la modalità della morte.
Ma qui emerge la mentalità contemporanea, che vuole dominare tutto dall’inizio alla fine, senza rispondere a nessuno al di fuori dell’io. Ma come può l’io decidere di sé? Quale potere ha sulla vita? Che ne sappiamo del significato che l’esistenza mantiene anche se è inchiodata ad un letto?
Comunque, occorre ripensare al senso vero del testamento, che è il lascito del meglio di sé e dei propri beni a qualcuno, non la consegna di istruzioni per l’uso sulla vita che finisce.