Testimoni della speranza
Fuori del Coro | n. 39-2006
Lo hanno definito gli Stati Generali della Chiesa italiana, ma il Convegno di Verona è molto di più che un’assemblea organizzativa delle realtà ecclesiali del nostro Paese o un punto strategico per far ripartire la “questione cattolica”: lo si capisce bene se si riflette sul contenuto della parola “speranza” che costituisce la vera provocazione di questi giorni veronesi.
La speranza per i cristiani non è solo l’attesa escatologica di un futuro che forse verrà alla fine del mondo, ma è la certezza nella positività del reale oggi, la certezza che Cristo risorto rende buone le cose adesso. Per questo la speranza non riguarda tanto l’esito delle circostanze (che mai come di questi tempi suonano avvolte in una cultura di morte permeata di un cupo pessimismo), ma la possibilità che le vicende della vita personale e sociale possano trovare il loro significato veramente umano. Non a caso nella sua prolusione il Card. Tettamanzi parla di una “antropologia della speranza”, ossia della necessità che si guardi l’uomo dalla nascita alla morte alla luce della certezza che la Resurrezione di Cristo introduce nella vita, dal momento che – prosegue Tettamanzi – “ciò che ci interpella non è semplicemente la fine, la conclusione della vita, ma il fine, il senso, il logos di ogni singola esistenza”.
E sta qui la novità (culturale ma anche operativa), in quella piccola parola greca logos con cui il prologo del Vangelo di Giovanni definisce Cristo che si fa uomo (“II Verbo si è fatto carne”); il logos che significa la ragione stessa dell’esistere, che spiega il mistero dell’esserci di ognuno strappandolo all’assurdità del caso perché configura le “ragioni della speranza”. Perché sperare se tutto cospira contro la felicità dell’uomo? Se è difficile credere, se è arduo amare il prossimo, non è ancor più impossibile sperare? “Bisogna aver ricevuto una grazia davvero grande per poter sperare” scriveva Péguy, e da questa certezza deve ripartire la Chiesa italiana nel suo insieme (e non solo il laicato come forse troppo si enfatizza!): occorre testimoniare una vita già oggi così straordinariamente bella sotto tutti i profili da contagiare tutti nel desiderio di viverla; cioè dare una tale testimonianza di gioia, di bellezza, di carità, di giustizia, di fraternità che tutti possano dire “ciò viene da Dio e quindi non potrà mai finire, anzi è destinato all’eternità!”.
Per questo la sfida non è sul domani, ma sull’oggi: come la vita cristiana permette di affrontare tutte le situazioni secondo il logos della speranza, cioè secondo le ragioni di una certezza che viene da Dio? Come vivere il lavoro o l’affettività, la festa o la percezione della fragilità del vivere senza lasciarsi uccidere dal cinismo che ci avvolge? Come vivere l’impegno sociale e politico in modo non ideologico ma con il realismo cristiano che valorizza ogni briciola di bene? Sono alcuni degli interrogativi che risuonano in questi giorni e che chiedono una chiarezza di identità per rispondere all’urgenza di dialogo e confronto dentro e fuori della Chiesa.
Una cosa è però certa: la speranza non nasce da qualche geniale progetto o da qualche strategia pastorale o politica, ma scaturisce dall’incontro con l’avvenimento di Gesù Risorto che sconvolge tutti i canoni di pensiero e di azione donando la certezza per sempre. Perciò il Convegno di Verona, ritornando all’insegnamento del Concilio Vaticano II, senza cadere in facili riduzioni sociologiche o relativistiche, è chiamato a rivivere la chiarezza dell’identità cristiana che si comunica integralmente con l’umile fierezza di chi non teme di cercare l’esempio dei Santi, uomini non certo tiepidi ma semmai totalmente innamorati del Volto di Colui che unico può offrire la speranza che non muore.