Un anno dopo Eluana
Fuori del Coro | n. 03-2010
Un anno fa terminava la vita fisica di Eluana Englaro, più familiarmente entrata nell’immaginario collettivo come Eluana, la bella ragazza da anni prigioniera di uno stato di incoscienza che pareva toglierle tutta la grazia e la dignità del suo corpo. Intorno alla sua vicenda l’Italia si è divisa in due parti, tra chi vedeva in lei solo un corpo senza reazioni o possibilità di comunicazione e chi ne riconosceva la dignità di persona unica ed irripetibile, comunque viva. Molto è stato detto e scritto, anche con la menzogna di chi non ha voluto riconoscere che si è trattato di un vero e proprio caso di eutanasia (se si chiamano le cose con il loro nome, senza infingimenti, Eluana è stata “fatta morire”): ma oggi cosa rimane di lei, proprio di lei e non del suo caso che si è voluto rendere pubblicamente emblematico per accelerare la discussione sul “testamento biologico”? Rimane la certezza che la sua vita non è stata inutile e che le cure offerte dalle suore che l’hanno accudita sono state un segno che si può ancora credere nella sacralità dell’esistenza; ma rimane anche il rimorso per non essere stati capaci di salvarla, di aver ceduto all’ideologia che conferisce dignità alla vita solo se rimane dentro gli standard dell’efficienza fisica, di non aver accolto Eluana per quello che era e non per ciò che appariva esteriormente. Ma nulla ha potuto contro una decisione già presa, suffragata da carte e da interventi giuridici, discutibili ma che hanno ottenuto lo scopo di “togliere” questa ragazza dagli occhi di chi non sopportava più di vederla così.
La sua morte non può però rimanere un “caso”, ma deve far riflettere sul potere degli uomini di dominare il mistero dell’esistenza, e quindi sulla pretesa di governare la gratuità della creazione con interventi che pongono sempre una forte domanda etica: è lecita l’eutanasia ed è giusto intervenire per ottemperare a dichiarazioni di rifiuto a continuare la vita fisica? La vita è sacra – si usa dire – ma lo è perché ogni vicenda terrena, ogni storia umana, rimanda ad una profondità d’essere di cui nessuno è padrone per il semplice fatto che nessuno è creatore di nulla, ma solo fruitore ed amministratore di quanto riceve all’atto della nascita. Nella vicenda di Eluana è apparsa chiara invece la volontà di sostituire ad ogni evidenza, che invocava la vita, un proprio progetto, senza voler capire che ognuno di noi ha bisogno di tutto in quanto essere finito e limitato. Infatti, la testimonianza più bella che lei ci ha lasciato è che nessuno può “fare da sé”, nessuno è in grado di salvarsi presuntuosamente con le proprie energie individuali, ma tutti abbiamo bisogno dell’altro e ciascuno è legato a filo doppio con la storia di chi gli è intorno. Perciò Eluana era diventata per molti “una di famiglia”, una ragazza di cui si voleva sapere come stava e che bisognava salvare da una sorta di “condanna a morte”, decretata dagli uomini più che dal destino clinico che l’aveva colpita.
La sua morte potrebbe oggi sembrare inutile perchè non ha nemmeno risolto il problema drammatico del “fine-vita” dal punto di vista normativo, eppure anche se non è stato possibile evitarla, ha fatto uscire allo scoperto molte altre situazioni analoghe, facendo conoscere tra l’altro anche l’eroica abnegazione di tante famiglie che non hanno rinunciato ad accudire i loro malati in condizioni disperate.