Vero e falso ecumenismo
Fuori del Coro | n. 06-1998
C’è una diffusa tendenza di questi tempi a cercare gli elementi di unificazione tra le culture e le sensibilità diverse che potremmo genericamente chiamare Ecumenismo, ossia tensione a superare le divisioni per identificare pochi essenziali elmenti universali comuni a tutti: la ricerca della pace, la difesa della natura, il rispetto dei diritti umani, il rapporto con gli avversari in termini politically correct, sino al sincretismo religioso della New Age che sintetizza valori di diversa provenienza in un mix di generico panteismo volto ad annullare i differenti nomi di Dio.
Certamente in una società complessa, sempre più segnata dalla mondialità e dalla globalizzazione dei mercati, la ricerca dei punti in comune è funzionale al superamento dei conflitti, attraverso la creazione di una Koinè (un linguaggio comune universalmente comprensibile a tutti) che favorisca lo scambio culturale e commerciale dentro un mondo diventato piccolo “villaggio”, tuttavia questa tendenza non è esente da equivoci pericolosi. Pensiamo ad esempio alla parola tolleranza, coniata in epoca illuministica per sconfiggere i “dogmatismi” della religione e per impedire discriminazioni a chi rifiutava le convinzioni allora universalmente riconosciute: tollerare qualcuno significa in realtà stabilire che il potere di turno conferisce il diritto di cittadinanza nell’ecumene solo a chi accetta che non esista alcun valore su cui comparare le differenze; anzi oggi la tolleranza viene spesso legittimata proprio dall’indifferenza, dal relativismo conoscitivo ed etico, per cui non essendoci nulla di più vero di qualcos’altro, tutto deve poter essere detto, tutto deve poter esistere, nulla può essere posto come discriminante di un criterio valutativo, al di fuori delle leggi non scritte degli interessi di chi “conduce il gioco”. Il risultato è che teoricamente si è aperti a tutto, ma praticamente gode del diritto di esistere solo chi non infrange il criterio omologante del potere.
L’evidente menzogna contenuta in tale idea di ecumenismo è l’assenza della nozione di verità: infatti si può realmente valorizzare tutto, accogliendo e non solamente tollerando, solo se si parte da un criterio veritativo che colloca ogni esperienza umana in un ordine obiettivo. La verità è la condizione per saper dire cosa è umanamente significativo e cosa non lo è; per cui solo un’identità culturale che si pone con le sue ragioni può sviluppare un dialogo franco con tutti, valorizzando ogni diversità entro uno sguardo positivo, e sapendo arricchirsi di quanto essa non possiede ma desidera in nome della verità. Solo la certezza di una natura umana che sta all’origine permette infatti di riconoscere il valore di quanto l’altro propone nella differenza delle sue espressioni.
A documentazione di ciò, pensiamo ai primi cristiani che uscirono dalla stretta cerchia della cultura ebraica (allora decisamente periferica rispetto all’ecumene del tempo, l’Impero) per dialogare con tutti, senza pregiudizi. La scelta fu chiara: far leva sulla ragione per far scoprire a tutti quanto la novità cristiana aveva da dire ad ogni uomo di retta coscienza. È il metodo di S. Paolo che lancia il messaggio cristiano nell’areopago di Atene (il palcoscenico culturale più importante del tempo) e dà la splendida definizione di cultura con il motto “vagliate tutto, trattenete ciò che è buono”. Oggi la questione è ancora quella: poter vagliare ogni frammento di questa civiltà polverizzata alla luce di un criterio di bene, di bello, di vero su cui edificare il riconoscimento con l’altro. Ma perché ciò avvenga non si deve aver paura della verità che, pur non essendo democratica (poiché non si lascia definire dalla maggioranza), è l’unica fonte di autentico ecumenismo.